giovedì 1 marzo 2012

Luigi Scalfaro: la Costituzione come bandiera

di Gustavo Zagrebelsky

Poche parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.

 

«Non c´è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L´unico che può temerle è chi è ricattabile»: sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale "prestazione" costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.

 

Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall´inizio all´altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).

 

Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l´imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell´illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole:

 

«Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all´uno e una volta all´altro e si sta a posto con la coscienza. No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro».

 

L´imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un´equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono. Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito - un compito che nell´ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato - di stabilire i confini tra il lecito e l´illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com´è la nostra, il terreno dell´inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che "costituzionalizzasse" tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.

 

È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la "tenuta" delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del "non ci sto", fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell´opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto.

 

Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l´eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide. Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: "ho compreso" e un "sappiate che cedimenti non sono alle viste". Che cosa "ho compreso"? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d´allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé poco evidenti, ma tali da sommarsi l´uno all´altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi. Qui, nel "bel paese là dove il sì suona" troppo frequentemente, i "no" scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi "no" (senza "il di più" satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell´alleanza Lega-Forza Italia nel 1994. Quei "no" hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere "plebiscitato" contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d´inciampo nella marcia verso qualcosa d´inquietante, una sorta di "democrazia d´investitura" personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.

 

Ma altri, importantissimi "no" sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli - cattolicissimo - rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l´evangelica rettitudine del sentire e dell´agire. Questo spiega l´ottimo rapporto personale - ch´egli soleva ricordare - con tanti galantuomini d´altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.

 

Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all´ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch´essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale. Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione "io non l´ho pagata nella Resistenza […] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai". Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.

 

fonte La Repubblica, 30 gennaio 2012

venerdì 6 gennaio 2012

Diritti flessibili nell’era dei feudi aziendali


di Alessandra Algostino
 

Considerazioni intorno all'accordo su democrazia e rappresentanza del 28 giugno 2011 e all'art. 8 della manovra finanziaria-bis (l. 148 del 2011)

 

 «Ogniqualvolta un notabile di Coketown si sentiva maltrattato – vale a dire, ogni volta che non gli si permetteva di fare il comodo suo e si avanzava l'ipotesi che potesse essere responsabile delle conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe uscito con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe «gettato tutti i suoi beni nell'Atlantico»»

C. Dickens, Hard Times. For These Times, 1854[1]

 

Sommario. 1. Premessa; 2. Sul senso della Costituzione; 3. Il conflitto capitale-lavoro e la scelta della Costituzione; 4. Il mantra della competitività e la contrattazione collettiva aziendale; 5. Tregua sindacale versus diritto di sciopero; 6. I sindacati aziendali; 7. Diritti flessibili; 8. La derogabilità della legge; 9. Il lavoratore, novello vassallo dell'era  Marchionne

 

 

1. Premessa

Il 28 giugno 2011 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil siglano un accordo interconfederale in tema di "democrazia e rappresentanza": un titolo che riflette il contenuto solo se si è in vena di un'amara ironia. La storia della destrutturazione dei rapporti di lavoro è ormai lunga, dalle prime leggi sulla flessibilità al c.d. collegato lavoro[2], dalle concertazioni sul welfare[3] agli "accordi" di Pomigliano e Mirafiori[4]. Il lavoro, che la Costituzione disegna come strumento di dignità della persona e mezzo di emancipazione sociale[5], come fondamento della «Repubblica democratica»[6] e trait d'union fra democrazia politica e democrazia economica[7], è sempre più solo merce[8]. Il diritto dei lavoratori, che evoca non solo una condizione normativa, ma dei diritti, delle garanzie, che ha come soggetto non la vendita di mano d'opera quanto la vita delle persone[9], è mistificato nella retorica dei lavori[10], della competitività, della "libertà" contrattuale del singolo lavoratore. La precarietà si ammanta e diviene flessibilità, quando non vuole essere ancor più affascinante e si fa flexicurity; la piena occupazione è sostituita dalla «propensione ad assumere» che, nel quadro dell'«efficientamento del mercato del lavoro», passa «attraverso una nuova regolazione [n.d.r.: de-regolazione] dei licenziamenti»[11].

L'Accordo è un tassello del quadro complessivo, una lente che, attraverso uno sguardo privilegiato al sistema delle relazioni industriali, racconta del sorgere di una nuova era nei rapporti capitale-lavoro. 

Si legge nelle premesse dell'Accordo: «è obiettivo comune l'impegno per realizzare un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l'occupazione e le retribuzioni».

Datori di lavoro e sindacati (nelle loro sigle maggiormente rappresentative a livello nazionale) concordano nel centrare le relazioni industriali sul profitto delle imprese (la loro competitività e produttività), nella prospettiva ordoliberale che da ciò possano discendere benefici per l'occupazione e le retribuzioni[12]. Si noti, incidenter, il riferimento non in senso ampio alle condizioni di lavoro ma alla sola retribuzione: se la retribuzione - una retribuzione che assicuri al lavoratore e alla sua famiglia «un'esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.) - è un elemento imprescindibile del rapporto di lavoro resta che lo status di lavoratore non si riduce allo scambio della propria produzione, materiale o immateriale che sia, con denaro.

Il rapporto di lavoro – nel costituzionalismo e nel diritto del lavoro del XX secolo (in specie della sua seconda metà) - non coinvolge solo aspetti patrimoniali, non è riducibile all'applicazione di una legge di mercato. Il lavoro nella Costituzione[13] è «mezzo necessario, per una parte, all'affermazione ed allo sviluppo della personalità, e per l'altra al progresso materiale e spirituale della società», realizzando la sintesi fra il principio personalistico e quello solidarista: così scriveva Mortati muovendo dal presupposto che era mutata «la concezione dei fini e della funzione dello Stato, non più solo garante delle libertà, chiamato com'è ad intervenire nella disciplina dei rapporti sociali per contrastare da una parte le prevaricazioni del potere economico e promuovere dall'altra una più equa distribuzione tra le classi dei beni della vita»[14].

Oggi il discorso sulla libertà si riduce sempre più alla libera affermazione di sé in un mondo dove impera il darwinismo sociale, si dimentica che la libertà senza uguaglianza è solo privilegio di pochi, si assiste al dominio dell'economia sulla politica. Si è imposto, e si è optato, con il consenso o la tacita connivenza dei gruppi dirigenti delle principali forze politiche, per un modello che traduce nelle relazioni industriali il libero mercato, o, alias, l'economia sociale di mercato, propria della prospettiva comunitaria[15]. Dopo lo svuotamento del significato dell'art. 41 della Costituzione, ormai così reinterpretato[16] a tutela della libera concorrenza da non aver più nemmeno bisogno di essere modificato[17], si rovescia la Repubblica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.) nella Repubblica fondata sulla produttività[18], o meglio ancora, sul profitto[19].

 

2. Sul senso della Costituzione

Ma qual è il senso della Costituzione? E qual è il compito di un costituzionalista? Occorre limitarsi a registrare gli scostamenti dalle norme, concludendo con un realismo, funzionale alle logiche di potere vincenti, che prevale l'effettività dei rapporti materiali, o sostenere le ragioni della Costituzione, perché essa continui a vivere e ad esser "fatta propria" dai consociati?

Domanda retorica per chi scrive: oggi più dell'epoca in cui interveniva Mortati è necessario ricordare le ragioni per cui una democrazia o è sociale o non è democrazia[20]. Si ragiona non delle motivazioni alla base di una scelta personale, o della natura del compito di uno studioso, che dovrebbe sempre essere critico, o propositivo, non puramente descrittivo[21], quanto, più ampiamente, della effettività e validità della costituzione. È un tema che richiederebbe di addentrarsi nell'analisi delle teorie sulla validità della costituzione, nonché, in specifico, nell'esame dei fondamenti della normatività della Costituzione italiana, qui ci si limita a rilevare due elementi: un dato di fatto recente e una considerazione, per così dire, di teoria generale.

Il dato di fatto recente è costituito dall'alta affluenza alle urne e dal rigetto[22], nel referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006, della proposta di modifica - uno stravolgimento - della seconda parte della Costituzione, atta ad incidere profondamente sulla forma di stato[23]. La vittoria dei "no" può essere letta come una conferma dell'esistenza di un consenso sulla Costituzione[24], indice del suo radicamento sociale. Quale che sia il valore che si intende attribuire alla condivisione della costituzione, alla sua vitalità all'interno della società[25], ovvero, più in generale all'incidenza dell'effettività sulla validità (e sulla legittimità), non si può non rilevare come anche in un clima di «lotta per la costituzione»[26] ciò rappresenti quantomeno una battaglia vinta dalla Costituzione quale patto condiviso contenente i principi cardine della società[27].

Nella stessa prospettiva si può leggere il risultato dei referendum abrogativi del 12-13 giugno 2011 relativi alla liberalizzazione dei servizi pubblici locali e, in particolare, alla questione dell'acqua pubblica: l'alta partecipazione al voto e la "quasi unanimità" a favore dell'abrogazione delle norme liberalizzatrici[28] mostrano il favor di cui gode il discorso dei beni comuni, che evoca il profilo sociale ed economico della democrazia[29], in un disegno coerente all'eguaglianza sostanziale dell'art. 3, c. 2, Costituzione e alla Repubblica fondata sul lavoro.

Quanto alla considerazione di teoria generale, si può rilevare come la Costituzione italiana, ma il discorso potrebbe estendersi a quella tedesca, spagnola, portoghese, etc., esprima «un nucleo forte di costituzionalismo»[30], ovvero si inscriva in quella prospettiva di evoluzione del costituzionalismo che coniuga gli aspetti liberali (libertà) del Settecento e gli aspetti sociali del secondo Novecento (solidarietà e giustizia), assumendo la configurazione di costituzionalismo emancipante[31]. Tale discorso, più che riflettere scelte di valore, si collega ad un fondamento storico, al costituzionalismo (emancipante) come frutto di uno sviluppo coerente e consolidato nel tempo e in ampi contesti[32] e in quanto tale dotato di una forza maggiore di quella legata al riconoscimento positivo in una determinata costituzione nonché agli umori di "maggioranze non maggioranze"[33]. La Costituzione esprime l'«esigenza della tutela e del potenziamento della persona» comune a fondamenti differenti[34], ovvero, ampliando l'orizzonte, si inscrive nella dimensione universale propria del costituzionalismo, quale emerge con forza soprattutto al termine del secondo conflitto mondiale[35]. Il radicamento storico e spaziale del concetto prescrittivo di costituzione consente di interpretare come scostamenti dal concetto stesso eventuali letture (e scritture) costituzionali differenti[36], senza revocare immediatamente in dubbio la sostanza "dovuta" del concetto stesso.

 

3. Il conflitto capitale-lavoro e la scelta della Costituzione

Il discorso che segue sarà, coerentemente con il senso della precisazione testè fatta, in nome e nella prospettiva della Costituzione, anche contro i rapporti di forza e il vuoto di idee e di alternative che oggi dominano, sia nel contesto economico-sociale sia nel mondo politico sia nel pensiero. Non si tratta della nostalgia per un tempo che fu, ma di muovere dalla consapevolezza che la volontà di accantonare la Costituzione, una Costituzione mai attuata, se non in minima parte, nel decennio di «disgelo»[37],  non esprime nullaltro che la volontà di riscrivere i termini del conflitto sociale. Certo, i rapporti tra le parti sono mutati, non vi è ora un movimento capace di immaginare ed imporre una, se non riscrittura, riequilibrio, dei rapporti di forza, non c'è più la paura di una "deriva comunista", ma forse proprio per questo è più che mai necessario ricordare l'esistenza del conflitto, contro la retorica mistificatoria della concertazione, della governance, o dei governi tecnici, e quali sono le prospettive in gioco.

Il conflitto è negato, assorbito, sedato, ridotto al silenzio: sindacati e "padroni" «assumono la prevenzione del conflitto come un reciproco impegno su cui il sistema partecipativo si fonda» (sic l'Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010) [38]. É un conflitto che contrappone lavoratori sempre più frammentati e deboli ad un potere sempre più pervasivo ed arrogante, un biopotere legibus solutus. La Costituzione testimonia l'esistenza del conflitto[39], lo  assume come un dato, giuridicamente non irrilevante[40], e disegna un progetto nel segno della limitazione del potere, politico ed economico[41].

In altri termini, pur muovendo dalla considerazione che «comunque il diritto costituzionale italiano (o di altri Stati) tutela e garantisce anche i capitalisti»[42], è indiscutibile che la Costituzione nel conflitto capitale-lavoro prevede esplicite garanzie a tutela del lavoratore e si esprime per un progetto di emancipazione sociale e di trasformazione della società che tende alla riduzione delle disuguaglianze e, quindi, a "favorire" il soggetto svantaggiato, non rimettendo interamente la risoluzione del conflitto ai rapporti di forza tra le parti[43]. Ciò vale sia nell'ipotesi in cui tal rapporti siano tradotti in legge dalla maggioranza politica sia nel caso in cui siano rimessi alla diretta negoziazione fra le parti.

Pare peccare di eccessivo senso di impotenza della Costituzione la tesi di chi sostiene, in relazione ad esempio all'obbligo per la Repubblica di promuovere il pieno impiego ex art. 4 Cost., che «se la maggioranza non vuole praticare determinati strumenti, non esiste meccanismo giuridico praticabile contro la maggioranza, se non una rinnovata volontà politica che cambia la maggioranza» e che «il risultato sarà sempre un risultato di fatto, e mai giuridicamente garantito»[44]. Se è vero che ogni Costituzione - come si è detto - necessita di "essere vissuta" e non si può prescindere dalla realtà del conflitto sociale (come la stessa Costituzione insegna), è anche vero che la Costituzione può costituire un argine per rapporti di forza che tendono ad esondare a danno dei territori che essa si propone di proteggere. Certo si tratta di "garanzie deboli"[45] che possono trattenere qualche piena eccezionale e non impedire che il fiume devii il suo corso, ma si può ipotizzare un tentativo di contenimento attraverso l'opera della Corte costituzionale, chiamando in soccorso le «garanzie costituzionali secondarie»[46]. Ciò nella consapevolezza che si entra nel terreno paludoso al confine fra scelte politiche e doverosa attuazione della Costituzione[47] e nella difficoltà di utilizzare strumenti in grado di colpire anche omissioni del legislatore[48].

Riguardo allo spazio della politica si può, peraltro, utilizzare la distinzione fra mezzi e fini: pur se si tratta di ipotesi in cui al diritto non corrispondono «obblighi tassativi in capo a soggetti o ad organi esplicitamente ed esattamente determinati»[49], si può sostenere che i soggetti pubblici, in primis il legislatore, sono liberi nei mezzi ma vincolati al perseguimento di un fine. Resta una facile obiezione: la soddisfazione del fine dipende dal contesto economico-sociale e, specie in epoca di globalizzazione economica liberista e di obblighi comunitari, o, a maggior ragione, in presenza di una crisi globale, il contesto si presenta come un dato che si impone alla stessa sovranità dello Stato. Se prima facie pare quasi difficile controbattere, è poi facile ricordare – sfatando il sacro mito del libero mercato e i comandamenti della finanza - che non esistono leggi di natura immodificabili in materia economico-sociale e che il modello di sviluppo rientra nella sfera della scelta politica[50]. A fronte di un debito che strangola lo stato sociale e legittima lo sterminio dei diritti dei lavoratori, ben si può ragionare di diritto al default[51], selettivo o meno, o di diritto di insolvenza[52], o, quantomeno, in prima istanza, di «audit per far luce sul debito»[53], come primi passi nel senso di una messa in discussione dell'attuale struttura dei rapporti economici[54].   

Quanto alla difficoltà di sanzionare il legislatore, entra in gioco la struttura del giudizio costituzionale, sia per la mancanza del ricorso diretto alla Corte per violazione dei diritti fondamentali (in ipotesi l'art. 4 Cost.), sia per l'indisponibilità di pronunce atte a colpire omissioni e lacune del legislatore, profilandosi come insufficiente in tal caso anche la possibilità di ricorrere a sentenze additive.

Si può, infine, anche pensare all'intervento del Presidente della Repubblica in qualità di garante della Costituzione, ad esempio, nell'esercizio del potere di rinvio di una legge alle Camere[55]; resta, comunque, come accennato, che si tratta di argini che possono, e devono, assolvere alla loro funzione, ma non possono supplire al ruolo delle forze politiche e sociali, dai sindacati alle varie forme di auto-organizzazione (movimenti, reti di lavoratori precari,…), a partiti che assumano nel proprio programma la difesa del lavoro e dei lavoratori.     

 

4. Il mantra della competitività e la contrattazione collettiva aziendale

Riprendendo il discorso principale, si può proseguire osservando come lo scenario che si va delineando, di cui l'Accordo in discussione rappresenta un tassello, entra in collisione anche con gli Statuti delle organizzazioni sindacali che lo hanno sottoscritto, non solo in quanto essi contengano un ovvio e scontato – oltre che dovuto - riferimento alla Costituzione[56], ma anche in quanto in essi si scrive di «una società senza privilegi e discriminazioni, in cui sia riconosciuto il diritto al lavoro, alla salute, alla tutela sociale, il benessere sia equamente distribuito, la cultura arricchisca la vita di tutte le persone, rimuovendo gli ostacoli politici, sociali ed economici che impediscono alle donne e agli uomini native/i e immigrate/i di decidere – su basi di pari diritti ed opportunità, riconoscendo le differenze – della propria vita e del proprio lavoro» (Statuto CGIL, Tit. I, art. 2), o in quanto vi si afferma che «al rispetto delle esigenze della persona debbono ordinarsi società e Stato» e che «le condizioni dell'economia debbono permettere lo sviluppo della personalità umana attraverso la giusta soddisfazione dei suoi bisogni materiali, intellettuali e morali, nell'ordine individuale, familiare e sociale», ispirandosi «al principio della supremazia del lavoro sul capitale» (Statuto CISL, Parte I, cap. I, art. 2).

Mentre nella prospettiva della Costituzione il lavoro – si è detto – ha un valore in quanto legato alla dignità della persona, è un elemento della democrazia, nell'Accordo si cita il «valore del lavoro» sempre in relazione alla competitività[57], magico mantra che percorre tutto il testo[58].

Anche la contrattazione collettiva è un «valore»: cioè? Valore evoca un quid positivo, da difendere, da perseguire, ma non ha, nel contesto dell'Accordo, un immediato significato normativo, ovvero non sancisce diritti od obblighi. Valore, dunque, può essere utilizzato con una mera valenza retorica, per non dire mistificatoria. Valore inoltre pare evocare, nel caso di cui si discute, una prospettiva neutrale: ma nella contrattazione tra lavoratore e datore di lavoro non vi è coincidenza di interessi e la contrattazione collettiva in sé dovrebbe essere uno strumento a favore del lavoratore, non più solo di fronte a chi – datore di lavoro – è in una posizione di forza. La neutralità in presenza di disuguaglianze non è mai tale: inevitabilmente favorisce la parte più forte.

Del resto l'Accordo è esplicito in tal senso e se, in prima battuta, cerca di mantenere insieme la funzionalizzazione della contrattazione collettiva rispetto «all'attività delle imprese» e «alla crescita di un'occupazione stabile e tutelata», nel prosieguo chiarisce come essa «deve essere orientata ad una politica di sviluppo adeguata alle differenti necessità produttive». Si recepiscono ante litteram le indicazioni della lettera della Banca Centrale Europea al Governo italiano del 5 agosto 2011, a firma di Jean Claude Trichet e Mario Draghi: «c'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»[59]. La lettera menziona espressamente l'Accordo del 28 giugno come passo nella direzione indicata[60]. Contrattazione collettiva, dunque, come finalizzata non primariamente alla tutela dei lavoratori ma alla predisposizione della merce-lavoro necessaria alla produzione.

Che il contratto collettivo non miri in primo luogo alla rimozione di disuguaglianze è avvalorato anche dal fatto che con la locuzione «contrattazione collettiva» si rinvia, più che al livello nazionale, ai settori, alle aziende, ai territori, quando non tout court alla contrattazione individuale[61]. Il sistema di contrattazione collettiva nazionale è oggetto di uno smantellamento progressivo a favore della contrattazione aziendale o di secondo livello, ampiamente sponsorizzata nel testo dell'Accordo. Al di là del riferimento alla contrattazione nazionale al punto 2, sono vari i punti in cui emerge chiaramente il favor con cui l'Accordo guarda la contrattazione aziendale. Nelle premesse si legge che, fermo restando il ruolo del contratto collettivo nazionale di lavoro, «è comune l'obiettivo di favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello» e al punto 8 si ribadisce che le parti «intendono dare ulteriore sostegno allo sviluppo della contrattazione collettiva aziendale». Non pare dunque di peccare di eccessiva malizia a leggere i riferimenti al contratto collettivo nazionale nell'Accordo come maschera a fronte della realtà di una sponsorizzazione del contratto aziendale, se pur configurato in chiave derogatoria[62].

L'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 (non sottoscritto dalla Cgil) aveva del resto già fissato il principio della derogabilità del contratto nazionale e della preferenza per il secondo livello di contrattazione[63]; come esplicitato nella conferenza stampa dell'allora Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: l'accordo quadro «promuov[e] lo spostamento del cuore della contrattazione dal livello nazionale alla dimensione aziendale e territoriale»[64]. Il governo Monti, in perfetta continuità, si propone di «perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro»[65]. 

Tutto ciò è coerente con un vero e proprio stravolgimento di senso della contrattazione collettiva. Muovendo dalla premessa che l'obiettivo, scritto in Costituzione, è (ancora)  quello di «eliminare gli ostacoli che pregiudicano lo stabilimento di equi rapporti sociali», nonostante le evidenti violazioni (per citarne solo due, si pensi al sistema fiscale[66] o, da ultimo, alla volontà di introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio[67]), l'associazione sindacale si presenta - per dirlo ancora con le parole di Mortati - «come il mezzo necessario a conferire ai lavoratori un'efficienza capace di contrapporre efficacemente la loro forza a quella che deriva dal possesso dei beni»[68]. Uno degli strumenti attraverso i quali i sindacati tentano di riequilibrare la debolezza del lavoratore rispetto al datore di lavoro è il contratto collettivo, nonostante la mancata efficacia erga omnes,prevista ex lege solo in caso fosse diventato operativo il meccanismo di registrazione dei sindacati di cui all'art. 39 Costituzione[69].

Attraverso il contratto collettivo i lavoratori oppongono la forza del numero al possesso dei mezzi di produzione[70]. Oggi la ratio riequilibratice della contrattazione collettiva scompare dietro la fictio di contraenti in condizioni di parità e accomunati dal medesimo obiettivo. La frammentazione della contrattazione di secondo livello completa l'opera. Il contratto collettivo diviene uno strumento, si potrebbe dire, ex parte "padrone".

Come si legge al punto 7 dell'Accordo del 28 giugno 2011, «i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale miranti ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi»: il contratto è in primo luogo funzionale alle esigenze dell'impresa. In questa prospettiva, il contratto aziendale può derogare ai contratti collettivi nazionali di lavoro: i contratti collettivi aziendali possono «definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro…» (ibidem) [71]. Tale previsione, fra l'altro, dissolve l'affermazione di cui al punto 2 dell'Accordo: «il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale». È sempre più lontana la ratio dell'art. 39 della Costituzione che, a tutela del lavoratore, prevedeva - come detto - l'efficacia erga omnes[72].

Libertà contrattuale e lavoro autonomo occultano condizioni sempre più servili del lavoro dipendente; dietro la libertà della partita Iva si nasconde un'alienazione totalizzate del lavoratore.

Del resto, quale libertà contrattuale può esserci in presenza di una differenza sostanziale nel potere contrattuale? Mirafiori e Pomigliano docent.

 

5. Tregua sindacale versus diritto di sciopero

Depotenziato o stravolto il contratto collettivo, il lavoratore si trova senza armatura, quando non senza compagni (si dirà dell'attacco all'autonomia e al pluralismo sindacale), ed anche senz'arma, visto il tentativo di limitare il diritto di sciopero. Nelle premesse dell'Accordo del 28 giugno 2011 si citano l'«affidabilità», il «rispetto delle regole stabilite» e la necessità di «garantire una maggior certezza alle scelte operate d'intesa fra aziende e rappresentanze sindacali dei lavoratori»: tutto ciò si traduce nelle «clausole di tregua sindacale», che, al fine di «garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva», vincolano le rappresentanze sindacali dei lavoratori firmatarie dell'accordo, se pur non i singoli lavoratori (punto 6). Lo sciopero non è menzionato, ma cosa significa "tregua sindacale" se non divieto di ricorso allo sciopero? L'articolo 40 della Costituzione cede ad una norma contrattuale? Resta il profilo individuale di partecipazione allo sciopero, ma lo sciopero è garantito dalla Costituzione proprio anche «quale strumento di coazione» per bilanciare il minor potere contrattuale dei sindacati[73]. Richiamando le parole del costituente Mancini: «il diritto di organizzazione sindacale, senza un connesso diritto di sciopero, non avrebbe importanza. Il lavoratore si organizza a scopo di difendersi. La difesa non può essere che lo sciopero»[74] .

Il diritto di sciopero come diritto disponibile, rimesso alla contrattazione fra le parti, è coerente con il disegno che lo vuole alla pari con il diritto di serrata, nella prospettiva di una libertà cieca alle disuguaglianze. E non è nemmeno solo una libertà che non vede le disuguaglianze ma è una libertà che le mistifica in una artificiale parità che, in un mondo diseguale, non può che riprodurle. È la logica della "libera" competitività, in nome della quale fra l'altro i lavoratori devono competere fra di loro per «cercare lavoro».

La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ora integrata nel corpus del Trattato di Lisbona, è esplicita[75]: «i lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno. diritto… di ricorrere, in caso di conflitti di interessi[76], ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero» (art. 28)[77]. Nel frattempo il diritto al lavoro è sostituito dal «diritto di lavorare» e dalla «libertà di cercare un lavoro» (art. 15 Carta dei diritti fondamentali): un mero diritto di libertà negativa, una possibilità dell'individuo, senza alcun obbligo o vincolo per le istituzioni[78].

Coerentemente con questi principi fondativi, da ultimo, ad esempio, il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011, annovera nel pacchetto globale di misure da adottare, nel nome della competitività e della stabilità finanziaria[79], una revisione degli accordi salariali e, se necessario, del grado di accentramento del processo negoziale e dei meccanismi d'indicizzazione, o l'omogeneizzazione degli accordi salariali del comparto pubblico con gli sforzi di competitività del settore privato[80]. 

 

6. I sindacati aziendali

Senz'armatura e senz'arma, dunque, il lavoratore, ma la storia è magistra vitae: i lavoratori unendosi hanno costruito armature ed armi. Coerentemente, allora, la destrutturazione e l'indebolimento si rivolgono anche alle associazioni sindacali.

Attraverso la concertazione si persegue l'obiettivo di smussare le rivendicazioni sussumendo i sindacati nel governo delle relazioni industriali, frammentandone se del caso l'unione ed escludendo i sindacati più riottosi ad accettare il ruolo di negazione/assorbimento del conflitto. Ad essere colpiti sono sia l'autonomia sia il pluralismo sindacale, costituzionalmente garantiti e promossi dall'art. 39 della Costituzione.

L'Accordo del 28 giugno 2011 prevede che quando la «maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie» approva un contratto collettivo aziendale, esso, «per le parti economiche e normative», è efficace «per tutto il personale in forza» e vincola tutte le associazioni sindacali firmatarie dell'accordo interconfederale stesso (punto 4). La minoranza, dunque, ha l'obbligo di accettare l'accordo[81].  

Si attaccano autonomia ed indipendenza del sindacato e si favoriscono i sindacati aziendalizzati, nel duplice senso di frammentati a livello di azienda e di complici dell'azienda. Emblematici, in questa prospettiva, gli accordi separati della Fiat, che mirano all'esclusione della Fiom[82], sindacato "scomodo"[83].

Non solo, l'Accordo[84] pone le basi per una riduzione degli spazi di democrazia sindacale, nel senso di partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione delle relazioni industriali: «i lavoratori non votano mai, se non quando in azienda operano le Rsa»[85]. E l'insistenza sulle Rsa (Rappresentanze sindacali aziendali)[86] si situa nella stessa prospettiva, perché, a differenza delle Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie), non sono elettive ma nominate dalle organizzazioni sindacali, anche se minoritarie e, dunque, sono «un'ennesima forma di democrazia per delega dall'alto»[87]. Si incide così anche sul ruolo del sindacato: da «mandatario dell'esercizio del potere di negoziare i contenuti del contratto, per conto dei lavoratori e sulla base del mandato» in «titolare del potere contrattuale tout court»[88].

L'Accordo sviluppa in senso autoritario, inibendo la partecipazione diretta dei lavoratori e il ruolo dei sindacati di minoranza, le premesse in termini di rappresentatività riguardanti la «legittimazione a negoziare», per la quale si stabilisce che il dato di rappresentatività debba superare per ciascuna organizzazione sindacale il 5% del totale dei lavoratori[89] cui si applica il contratto (punto 1 dell'Accordo)[90]. 

 

7. Diritti flessibili

Se il quadro di riferimento è questo e il mantra la competitività non dovrebbe stupire la spudoratezza del passaggio successivo: la «politica di sviluppo adeguata alle differenti necessità produttive» è «da conciliare con il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone»[91]. I diritti, inviolabili, indisponibili, inalienabili, imprescrittibili, divengono qualcosa con cui accordarsi, da bilanciare, ovvero qualcosa di cui tener conto, qualcosa – verrebbe da dire – da non violare troppo apertamente. Diritti flessibili?

La bozza di disegno di legge delega per la predisposizione di uno statuto dei lavori lo conferma: identificato «un nucleo di diritti universali e indisponibili», prevede che la «rimanente area di tutele» possa essere oggetto, attraverso la contrattazione collettiva, di una «modulazione e promozione nei settori, nelle aziende e nei territori, anche in deroga alle norme di legge, valorizzando il ruolo e le funzioni degli organismi bilaterali»[92].

Sono molte le considerazioni che questo passaggio suscita. In primo luogo si può notare l'utilizzo della "strategia del nucleo essenziale": si affabula ribadendo il carattere essenziale di un nucleo di diritti e nel contempo si declassano altri diritti, che, da indisponibili, divengono "modulabili". È la stessa strategia sottesa all'introduzione nel 2001 nel Titolo V della Costituzione dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, c. 2, lett. m)): in questo caso indebolendo, attraverso la graduazione di tutela all'interno di un diritto, le garanzie, negative o, più spesso, positive, ad esso connesse[93]. Si attiene alla linea, da ultimo, il governo Monti, che constata l'esistenza di un mercato del lavoro duale, dove alcuni sono totalmente privi di tutele e altri sono «fin troppo tutelati»[94]. Come dire, la risposta alla precarietà è diminuire le garanzie legate alla stabilità, nella prospettiva per cui non sono più diritti ma (indebiti) privilegi, dunque, non da estendere, ma da abolire o restringere.  

I diritti divengono tutele, dei benefici - di ottocentesca memoria - da modulare, in spregio all'inviolabilità e all'eguaglianza. L'eguaglianza perde due volte: si instaura un concorso vizioso di disuguaglianza che somma gli effetti di una contrattazione sempre più depotenziata dalla sua frammentazione[95] a quelli dell'emarginazione della legge.

 

8. La derogabilità della legge

Lo spazio della legge si riduce a favore della contrattazione collettiva, che è strutturalmente la fonte maggiormente esposta al mutare dei rapporti di forza tra le parti sociali. Nulla togliendo alle variabili inerenti «i luoghi, le categorie, la situazione del mercato», ovvero ad una libertà contrattuale delle parti, che si svolga in un «rapporto di effettiva parità» (ossia che sia reale libertà contrattuale e non semplice assenso ad un ricatto), alla legge devono essere affidate «la determinazione di certe garanzie che appaiono più rilevanti a salvaguardare le esigenze del lavoro»[96]. Il ritrarsi della legge apre le porte ad una diminuzione delle garanzie e in periodi, come l'attuale, di debolezza delle forze del lavoro non può che veicolare un peggioramento delle condizioni di lavoro[97].

Per inciso, ovviamente, nel ruolo che può giocare la legge molto dipende a monte dai sistemi elettorale e partitico che conformano la rappresentanza, ovvero dalla possibilità che gli interessi della classe lavoratrice[98] abbiano voce nella politica e nella dialettica parlamentare[99]. Una formula elettorale maggioritaria, o con effetti maggioritari come il c.d. Porcellum, e un sistema bipolare, o bipartitico, tendenzialmente centripeti, amplificano le difficoltà delle classi più deboli a veder rappresentati i propri interessi.  

La contrazione dell'intervento attraverso norme generali ed astratte, rigide e univoche - come dovrebbero essere quelle delle leggi ordinarie - e l'espandersi di regole sempre più frammentate e parcellizzate comporta una deminutio nell'eguaglianza e nella certezza del diritto.

Non solo: la legge diviene derogabile dalle parti[100]. «Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro»[101]. Norme flessibili? 

Si noti che fra le materie del comma 2, vi è l'organizzazione del lavoro con riferimento: «a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle  mansioni  del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile…, alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell'orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione  per  il  licenziamento  discriminatorio» e il licenziamento "per motivi di famiglia" (matrimonio, gravidanza, congedi parentali, etc.). Si tratta, in poche parole, del diritto del lavoro, anche in relazione a classici diritti che prescindono dalla condizione di lavoratore come il diritto alla privacy, o, suppostamene, la libertà di manifestazione del pensiero.

Nasce una inedita delegificazione (se non una sorta di "decostituzionalizzazione" nella parte in cui le leggi sostanziano e attuano le norme costituzionali) a disposizione delle parti private, una depubblicizzazione e delocalizzazione del diritto del lavoro, ovvero una sua destrutturazione atta a risolversi nella sua dissoluzione.

Regole sfuggenti e informali funzionali ad un sistema economico che plasma diritto e politica? Svanisce il diritto che conforma il fatto e ragiona di interessi generali, sostituito da un diritto prostrato agli interessi privati di una (sempre più) ristretta oligarchia economica[102]. Il diritto diviene fluido, pronto a liquefarsi quando lo richiedono gli interessi del mercato.

L'esautoramento della legge dai rapporti di lavoro è un tassello della sua emarginazione nel sistema delle fonti del diritto, coerente ad uno stravolgimento del sistema stesso, attraversato dal dilagare di regole flessibili, imputabili ai privati, disancorate dal luogo, che si tratti di soft law, di lex mercatoria, di diritto contrattuale[103]. Attraverso l'emarginazione della legge passa la de-costruzione del diritto, di un diritto che le Costituzioni del secondo Novecento costruiscono come autonomo grazie ad una rappresentanza concepita come intimamente connessa alla sovranità popolare (a tacer qui, peraltro, dei mutamenti subiti dalla rappresentanza e dalla marginalizzazione del Parlamento). La legge, il diritto, vengono sganciati dalla sovranità popolare, imboccando un binario che si allontana sempre più dalla democrazia.

Si ragiona di medievalizzazione e privatizzazione del diritto, in coerenza con un mondo del lavoro neofeudale, dove ciascuna azienda costituisce un feudo a sé stante[104]. L'impresa, con un sindacato locale, magari creato ad hoc[105], si dota di un proprio "non diritto del lavoro"[106], disponendo delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. Un biopotere aziendale.

Come in ogni feudo che si rispetti anche la giustizia è amministrata dal signore feudale e qui soccorre la legge n. 183 del 2010, il c.d. collegato lavoro[107], con l'"incentivazione", attraverso l'inserimento nel contratto di una clausola compromissoria, a ricorrere all'arbitrato[108], e la facoltà di decidere secondo equità (salvo il limite, generico, dei principi generali dell'ordinamento) [109].

L'arbitrato, sempre più diffuso anche a livello internazionale, è il naturale seguito di un sistema fondato sul contratto: alla privatizzazione del diritto e della sua fonte non può che accompagnarsi la privatizzazione della giustizia, di chi del diritto deve garantire il rispetto. Ed ancora: un sistema di diritto flessibile, gestito in proprio, si coniuga perfettamente con il ricorso all'equità, strumento morbido, flessibile, "a disposizione". Incidenter,si noti come "equità" sia espressione sempre più utilizzata: si avvia a divenire una delle nuove parole slogan? Magari in sostituzione della ben più impegnativa "giustizia sociale"?[110] 

Resta da chiedersi: ci sono dei punti di rottura oltre i quali la flessibilità non può spingersi? Ovvero, esistono dei controlimiti al contratto collettivo aziendale? Nel ridurre allo stato liquido il diritto del lavoro, l'art. 8 della manovra finanziaria-bis prima citato fa salvi la Costituzione e «i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro».

Quanto alla Costituzione, oltre la considerazione che non potrebbe essere disposto diversamente data la fonte (legge ordinaria), è da rilevare che, anche quando non siano direttamente violate disposizioni che prescrivono un quid[111], facilmente possono darsi "violazioni per inattuazione", ovvero in relazione a norme che dovrebbero essere adottate e non lo sono, o previsioni contra constitutionem in quanto contraddittorie o non coerenti rispetto allo spirito e alla ratio delle norme costituzionali[112]. Si pensi, ad esempio, oltre ovviamente agli articoli 1 e 4, all'articolo 35 che stabilisce che «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni». 

Per le norme comunitarie, oltre ad applicarsi il discorso in tema di gerarchia delle fonti, è da osservare una comunanza di intenti fra la direzione degli interventi interni in materia di lavoro e l'obiettivo "liberalizzatore" del mercato del lavoro delle istituzioni comunitarie.

Quanto alle norme internazionali sono richiamate solo le convenzioni in tema di lavoro. Quali sono? Quelle adottate in ambito OIL? Quelle che recano per oggetto la materia lavoro? Che succede, ad esempio, delle norme del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali in tema di lavoro (artt. 6 ss.)? Le leggi di autorizzazione alla ratifica e la ratifica di trattati internazionali formalmente sono per lo più norme di legge ordinaria[113], rientrano nell'area del derogabile se non sono in materia di lavoro? A favore di una risposta negativa, si possono citare alcuni argomenti. In primo luogo, lo stretto legame fra il diritto internazionale, in specie, dei diritti umani e le corrispondenti norme della Costituzione, per cui, quantomeno in qualità di strumenti interpretativi, le norme internazionali assurgono ad un rango "sostanzialmente" costituzionale. In secondo luogo, soccorre la considerazione che in molti casi può trattarsi di norme di diritto internazionale consuetudinario, costituzionalmente "coperte" dall'adattamento automatico dell'art. 10, c. 1, Costituzione. In terzo luogo, si può richiamare l'articolo 117, comma 1, della Costituzione, con il riferimento al rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali[114]. Tutto ciò ovviamente postulando che il diritto, internazionale e statale, esista ancora e possa conformare il fatto.

 

9. Il lavoratore, novello vassallo dell'era  Marchionne

Diritti flessibili, norme fluide, corporativizzazione delle relazioni industriali, contratto collettivo parcellizzato, quando non individualizzato: verso rapporti di lavoro vassallatici?

Nulla di strano, anzi coerente con un'epoca in cui evapora la distinzione pubblico-privato (a vantaggio del secondo, ça va sans dire), l'economia domina la politica, e si ragiona, come detto, di medievalizzazione del diritto e di neofeudalizzazione delle relazioni industriali. In un mondo in cui tutto è sempre più privato, dall'acqua alla sicurezza, dalla giustizia alla moneta, il lavoro non può che (tornare ad) essere servile. La fictio di una artificiale parità fa da sfondo ad meccanismo conciliativo-concertativo dove la negazione del conflitto segna il dominio della parte più forte.

La liquidazione del lavoro come mezzo di emancipazione destruttura le fondamenta della democrazia e della Costituzione[115]: denunciare l'illegittimità costituzionale, che sia sanzionabile attraverso una pronuncia formale della Corte, come nell'ipotesi dell'art. 8 della manovra finanziaria-bis, o, politicamente, come è per l'Accordo del 28 giugno 2011, è un passo nel cammino di una resistenza costituzionale, che assuma la Costituzione come «trincea da difendere» e come «programma da attuare»[116].   

Nell'era in cui gli uomini della Goldman Sachs e affini sono al vertice di governi e istituzioni definite tecniche e neutrali, i vari Marchionne spadroneggiano nelle loro terre. Per fortuna la storia non è finita, è in continuo movimento: schiavi e dannati della terra si sono sempre ribellati.

 

[1] Trad. it. Tempi difficili, Einaudi, Torino, 1999, p. 136; ogni riferimento agli accordi-ricatto di Pomigliano e Mirafiori è voluto.

 

[2] Si pensi, in particolare, alla legge 24 giugno 1997, n. 169 (c.d. pacchetto Treu), o alla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (nota come "legge Biagi"), per arrivare al c.d. "collegato lavoro" (legge 4 novembre 2010, n. 183). Sulla destrutturazione dei diritti dei lavoratori e del diritto al lavoro, in Italia e in Europa, cfr., fra gli altri, A. Cantaro, Il diritto dimenticato. Il lavoro nella costituzione europea, Giappichelli, Torino, 2007; G. Azzariti, Brevi notazioni sulle trasformazioni del diritto costituzionale e sulle sorti del diritto del lavoro in Europa, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 13 maggio 2009; M. G. Garofalo, È ineluttabile il passaggio da una Costituzione fondata sul lavoro ad un ordinamento fondato sul libero mercato?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 13 maggio 2009; M. Roccella, Lavoratori senza diritti, in MicroMega, 5/2010.

 

[3] Cfr., ad esempio, l'accordo sul welfare del 23 luglio 2007, recante Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l'equità e la crescita sostenibili (cfr. anche legge 24 dicembre 2007, n. 247, Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l'equità e la crescita sostenibili, nonchè ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale).

 

[4] Per un primo commento, si vedano L. Gallino, Fiat, ricatti e sfruttamento sotto il velo della globalizzazione, in la Repubblica, 14 giugno 2010; G. Ferrara, La Costituzione secondo Pomigliano, 19 giugno 2010, in www.costituzionalismo.it; M. Revelli, La loro morale e la nostra, in il manifesto, 26 giugno 2010. Da ultimo, cfr., per un'analisi del caso Pomigliano come emblema della riorganizzazione del lavoro da parte del capitale, Gruppo Lavoro del Centro per la Riforma dello Stato (a cura di), Nuova Panda, schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011.

 

[5] La considerazione del lavoro alla luce della dignità della persona consente, fra l'altro, di ridurre le possibili contraddizioni fra la lettura del lavoro come lavoro salariato ex art. 36 Cost. e quella del lavoro come ogni attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società ex art. 4 Cost. (si veda M. Dogliani, La parola lavoro. La Costituzione come nefas alle razionalità aggressive nei confronti del lavoro perché sistemicamente autodistruttive, paper, 2011); sull'individuazione dei soggetti da considerare «lavoratori», cfr., da ultimo, G. U. Rescigno, Lavoro e costituzione, in Dir. pubbl., 2009/1, spec. pp. 25 ss.  

 

[6] Sul nesso democrazia-lavoro, i costituenti non avevano dubbi; fra i molti, si ricorda Aldo Moro che propone la formula «Il lavoro e la sua partecipazione concreta nelle organizzazioni economiche, sociali e politiche è il fondamento della democrazia italiana» (Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di giovedì 28 novembre 1946, consultabile in http://legislature.camera.it/frameset.asp?content=%2Faltre_sezionism%2F304%2F8964%2Fdocumentotesto.asp%3F); da ultimo, cfr. G. Zagrebelsky (in E. Mauro, G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 33): «è la Costituzione stessa a stabilire un rapporto tra il lavoro e la democrazia», coloro lo [n.d.r.: art. 1] hanno scritto avevano chiaro il nesso tra democrazia come forma politica e democrazia come sostanza di rapporti sociali e sapevano che la condizione del lavoro è decisiva. Una «democrazia servile», dove ci sia chi lavora senza diritti, non è una democrazia, ancorché esistano partiti, elezioni, ecc.».

Si veda anche M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, relazione al Convegno anuale AIC, Costituzionalismo e Costituzione nella vicenda unitaria italiana, Torino, 27-29 ottobre 2011, che lega la fondazione della Repubblica sul lavoro alla «volontà di fondare la Repubblica su un elemento profondamente egalitario e addirittura universalistico, su un dato insuperabilmente umano» (p. 42).

 

[7] Il lavoro - scrive M. Tronti (Il lavoro al "tramonto della politica". Un'intervista a Mario Tronti, in Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale, 2-3/2010, Il lavoro in questione) - «è una categoria economica che, però, ha una potenzialità politica» (p. 308).

 

[8] In tema, per tutti, cfr. L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari, ed. 2009.

 

[9] Cfr. M. Revelli, Controcanto, chiarelettere, Padova, 2010, p. 225: «il «lavoro come soggettività», il lavoro come fondamento di un'identità collettiva capace di definire e rendere protagonista un soggetto - il lavoro come protagonista della vita civile e della storia -, quello, come scrive Rifkin, davvero sembra finito. O quantomeno oscurato». 

 

[10] Si veda, emblematicamente, la proposta, avanzata dal Ministro del lavoro Maurizio Sacconi, in occasione dei quarantanni dello Statuto, di modificare lo Statuto dei lavoratori in Statuto dei lavori, proposta tradotta in una bozza di disegno di legge, recante «Delega al Governo per la predisposizione di uno Statuto dei lavori», presentata il 15 novembre 2010.

 

[11] Così nella Lettera inviata dal governo italiano all'Unione europea, 26 ottobre 2011 (consultabile in www.corriere.it).

 

[12] Si leggano in argomento, da ultimo, le Conclusioni del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011: «il mercato unico svolge un ruolo chiave per produrre crescita e occupazione e promuovere la competitività» (EUCO 10/1/11 REV 1

 inwww.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/120304.pdf , parte I, par. 7).

 

[13] Suggestivo l'approccio al lavoro nella Costituzione di T. Negri, Il lavoro nella Costituzione (1964), in Id., La forma Stato. Per la critica dell'economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977: «il lavoro è, nel quadro della costituzione della società-fabbrica, categoria borghese», «la costituzione sociale non è altro che la costituzione sociale del capitale», «i rivolgimenti della costituzione formale, indotti dalla nuova definizione laborista della costituzione materiale, lungi dal sopprimere in realtà rivelano una consolidata natura di classe del sistema» (p. 47). Se indubbiamente lo stato sociale è una forma di assorbimento delle potenzialità rivoluzionarie e socialiste del conflitto sociale e, dunque, uno "strumento del capitale", resta che è anche una conquista politica, sociale ed economica dei movimenti operai e/o più latamente socialisti.  

 

[14] C. Mortati, Art. 1, in G. Branca, Commentario della Costituzione, Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, pp. 10-12. Sul lavoro come asse di una strategia di trasformazione della società, cfr. G. Bucci, La sovranità popolare nella trappola delle reti multilevel, in www.costituzionalismo.it, 1/2008, p. 5; S. D'Albergo, Cultura giuridica, stato democratico e fascismo, in Aa.Vv., Per una analisi del neofascismo, in Quad. Dem. e dir., n. 1, 1975, p. 104.

 

[15] In tema, sia consentito, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche rinviare a A. Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus "costituzione europea"?, in Riv. Dir. Cost., 2007, e Id., L'insostenibile pesantezza del mercato, in A. Cantaro (a cura di), Il costituzionalismo asimmetrico dell'Unione. L'integrazione europea dopo il Trattato di Lisbona, Giappichelli, Torino, 2010.

 

[16] Ovvero, se si legge l'art. 41 in sistema con l'art. 3, c. 2, violato. Per una diversa interpretazione, più favorevole ad una lettura dell'art. 41 e, in specie, del riferimento alla «utilità sociale», in chiave di tutela della concorrenza e adeguatezza rispetto al mercato europeo (per cui non occorre una revisione costituzionale), C. Pinelli, Attualità dell'art. 41 Cost., con particolare riferimento alla "utilità sociale", relazione al Convegno "Che bisogno c'è di stravolgere l'art. 41 della Costituzione?", 11 ottobre 2011, consultabile in www.centroriformastato.org; da ultimo, si segnalano sul tema le riflessioni di M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica, cit., pp. 47 ss.

 

[17] Non manca peraltro il riferimento alla "necessità" di modificare l'art. 41: si veda il disegno di legge costituzionale recante Modifica degli articoli 41, 97 e 118 della Costituzione, approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 febbraio 2011 (Atto Camera n. 4144, presentato il 7 marzo 2011); per un primo commento, cfr., per tutti, M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica, cit., pp. 54 ss. 

 

[18] Contra – pare scontato ricordarlo – le intenzioni dei costituenti, la volontà di dar vita ad un nuovo assetto sociale. Cfr. C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in Il diritto del lavoro, 1954, I, pp. 149 ss., e oggi in Id., Problemi di diritto pubblico nell'attuale esperienza costituzionale repubblicana, Raccolta di scritti, III, Giuffrè, Milano, 1972, p. 233: «fondare il nuovo Stato sul lavoro volle… significare rigetto di altri valori prima ritenuti dominanti e qualificativi di un tipo di società, ed in particolare di quelli legati all'appropriazione privata dei beni produttivi, considerati preminenti nelle costituzioni dell'800».

 

[19] Non a caso fra le ipotesi di revisione costituzionale vi è anche quella dell'art. 1 (Atto Camera 4292 presentato da R. Ceroni il 18 aprile 2011).

 

[20] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, X ed. rielaborata ed aggiornata a cura di F. Modugno, A. Baldassarre e C. Mezzanotte, Cedam, Padova, 1991, p. 147: «la formula «democrazia sociale» è da intendere non già come una delle possibili forme di democrazia, bensì come la sua forma necessaria, sicché l'aggettivo assume la funzione di rendere evidente quella parte di contenuto coessenziale a qualsiasi regime democratico».

 

[21]  M. Augé: «la cultura dovrebbe essere sempre critica se non rivoluzionaria. La cultura non è lo specchio dell'esistente ma la sua disamina, la sua messa in causa, dovrebbe essere attenta, vigile» (F. Murard-Yovanovitch, Marc-Augé: "Rendiamo eterno il presente per paura del futuro" - L'intervista, in l'Unità, 7 ottobre 2010, p. 38); nello stesso senso, G. Azzariti, I costituzionalisti al tempo di Babele, in www.costituzionalismo.it, 26 giugno 2010: spetta alla scienza «il compito di demistificare le false certezze, decostruire il reale, «cercare ancora»».

 

[22]Si ricorda che l'affluenza alle urne è stata del 52,3%, i "no" il 61,3%, i "sì" il 38,7% (fonte: www.repubblica.it/speciale/2006/referendum/index.html).

 

[23] Ex multis, da ultimo, sulla non fungibilità della forma di governo rispetto alla forma di stato e sulla «possibile reattività di determinati sviluppi della forma di governo sulla forma di stato», M. Dogliani, Procedimenti, controlli costituzionali e conflitti nell'attività di governo, paper presentato al Convegno annuale AIC, Decisione, conflitti, controlli. Procedure costituzionali e sistema politico, Parma, 29-30 ottobre 2010. 

 

[24] Nell'immediatezza, cfr. G. Ferrara, Attuare la Costituzione, in www.costituzionalismo.it, 5 luglio 2006; vedi, inoltre, C. Dell'acqua, Dopo il referendum costituzionale: il ritorno dell'interpretazione, in Quad. cost., 2007, 2, p. 353; A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, in www.forumcostituzionale.it, p. 20; L. Elia, Discorso in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione della Repubblica italiana, pubblicato in www.cortecostituzionale.it, 15 aprile 2008.

 

[25] In argomento, in relazione alla Costituzione italiana, si vedano, sinteticamente, A. Di Giovine, Dall'approvazione all'attuazione della Carta costituzionale: l'ineluttabile dilazione, in Dem. e dir., 4/2005, pp. 26 ss.; M. Dogliani, I. Massa Pinto, La crisi costituzionale italiana nell'attuale fase della "lotta per la Costituzione", in www.costituzionalismo.it, 15 febbraio 2006; V. Onida, La Costituzione, il Mulino, Bologna, 2007, p. 50; E. Cheli, Il percorso storico della carta repubblicana. Attuazione, riforme e interpretazioni del modello costituzionale, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 19. Seminario 2008, Giappichelli, Torino, 2009, spec. pp. 24-26. Per un approccio teorico alla questione della forza normativa e della capacità prescrittiva del diritto costituzionale e al suo legame con la legittimazione materiale e sociale, cfr., recentemente, G. Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 3 ss.

 

[26] Cfr. M. Dogliani, La costituzione italiana del 1947 nella sua fase contemporanea, in Accademia nazionale dei Lincei, Lo stato della Costituzione italiana e l'avvio della Costituzione europea (Atti del convegno, Roma, 14-15 luglio 2003), Roma, 2003, pp. 33 ss.; G. Azzariti, Innovazioni costituzionali e revisioni costituzionali in deroga all'art. 138 della Costituzione. Sfide della storia e sfide della politica, in S. Gambino, G. D'ignazio (a cura di), La revisione costituzionale e i suoi limiti. Fra teoria costituzionale, diritto interno, esperienze straniere, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 137 ss., che si riferisce ad una lotta per la costituzione «attuale, anzi necessaria»; da ultimo,  U. Allegretti, Gli apparati organizzativi e la democrazia, relazione al Convegno annuale AIC, Costituzionalismo e Costituzione nella vicenda unitaria italiana, Torino, 27-29 ottobre 2011, p. 75.

 

[27] A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati, cit., ritiene la Costituzione repubblicana «fortemente radicata nella coscienza degli italiani» (p. 7), sottolineando come «una costituzione non è solo di chi l'ha voluta ma di quanti l'hanno riconosciuta» (p. 17).

 

[28] Il primo quesito (Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica-Abrogazione) ha registrato una affluenza alle urne del 57,04% con 95,84% di sì, il secondo quesito (Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all'adeguata remunerazione del capitale investito - Abrogazione parziale di norma) una partecipazione pari al 57,05% e 96,82 sì (dati ufficiali dal sito del Ministero dell'Interno riferiti all'Italia).

 

[29] Ci si permette di rinviare alle brevi considerazioni svolte in tema (Perché si scrive acqua e si legge democrazia. Beni comuni, democrazia e Costituzione, consultabile in www.acquabenecomune.org).

 

[30] L. Elia, Discorso, cit., che considera come tale «nucleo forte» sia stato il quadro all'interno del quale si è svolta una «apertura al nuovo».

 

[31] Cfr. A. Di Giovine, M. Dogliani, Dalla democrazia emancipante alla democrazia senza qualità?, in Quest. giust., 2, 1993; sull'evoluzione del costituzionalismo, sinteticamente, T. Martines, Introduzione al diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 1994, pp. 105 ss., e, più ampiamente, G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Feltrinelli, Milano, 2006; in argomento, recentemente, cfr. G. Bongiovanni, Costituzionalismo e teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2005; V. Onida, La Costituzione ieri e oggi, il Mulino, Bologna, 2008, spec. pp. 52 ss.; A. Cantaro, Il secolo lungo, cit., spec. pp. 143 ss.; M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari, 2009; R. L. Blanco Valdés, La construcción de la libertad. Apuntes para una historia del constitucionalismo europeo, Alianza, Madrid, 2010.

 

[32] M. Dogliani, Validità e normatività delle costituzioni (a proposito del programma di Costituzionalismo.it), in www.costituzionalismo.it, 18 gennaio 2005, ricorda quella tradizione che «vede nel costituzionalismo una plurisecolare – o plurimillenaria – elaborazione di principi di ragion pratica. Principi che si sottraggono, a causa della varietà dei contesti in cui furono elaborati, alla critica di essere mere maschere ideologiche della volontà di potenza…».

Similmente si può ragionare in relazione al fondamento dei diritti (si veda A. Algostino, L'ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana?, Jovene, Napoli, 2005, pp. 191 ss.).

 

[33] Si pensi ad una modifica della Costituzione a maggioranza assoluta, ma anche a maggioranza dei 2/3, in presenza di una formula elettorale con premi di maggioranza come quello attualmente previsto.

 

[34] Vedi C. Mortati, Costituzione, in Enc. dir., XI, Giuffrè, Milano, 1962, che muove dalla considerazione della «coesistenza nella costituzione di tre motivi ispiratori: il cristiano, il liberale, il socialista», che convergono nell'individuare il «nucleo dei valori più essenziali» nella condivisione della «stessa esigenza della tutela e del potenziamento della persona» (p. 222) e considera come «la vitalità della costituzione poggia sulla corrispondenza del nucleo fondamentale dei suoi principi allo spirito dei tempi, sulla sua consonanza con il moto suscitato in tutti i continenti da un irresistibile impulso di liberazione dai vincoli che tolgono all'uomo di essere pienamente se stesso» (p. 231).

 

[35] In questo senso, da ultimo, cfr. V. Onida, La Costituzione ieri e oggi, cit., che, rilevato come il costituzionalismo contemporaneo nasca «con un'impronta e una vocazione «universalistiche»», osserva che esso, dopo un primo periodo di sviluppo «in una chiave prevalente di storie nazionali», a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 vive come «costituzionalismo internazionale» (pp. 13-22); la Costituzione italiana – prosegue Onida - recepisce, al di là del legame genetico con la storia italiana, lo spirito del costituzionalismo internazionale, ovvero, con le parole di Dossetti, «porta l'impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale» (pp. 7-12), si colloca nella «common law costituzionale» (p. 55).

 

[36] Scrive G. Silvestri, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari, 2009, a proposito dei «valori»: i valori derivano da scelte e decisioni che «assumono forma storica consolidata nel progressivo stratificarsi, nella coscienza dei popoli» e «arriva un momento… in cui l'opzione di valore… cessa di essere percepita come tale per assumere le sembianze della necessità oggettiva. I valori fondamentali si pongono pertanto su un piano «metacostituzionale» e appaiono più solidi e radicati nella comunità di quanto lo siano le stesse norme costituzionali scritte» (p. 5), con la conseguenza che la forza dei valori sta «nella loro persistenza nella cultura epocale» e che «il loro appannamento per periodi anche lunghi, non ne sminuisce la validità» (p. 29).

 

[37] Cfr. M. Dogliani (da ultimo in La determinazione della politica nazionale, in Aa.Vv., a cura di M. Ruotolo, La Costituzione ha 60 anni. La qualità della vita sessant'anni dopo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008, pp. 336-337), che parla di «disgelo» in relazione agli anni 1969-1978; sulle politiche all'epoca del disgelo costituzionale, da ultimo, cfr. S. Rodotà, Diritti e libertà nella storia d'Italia. Conquiste e conflitti 1861-2911, Donzelli, Roma, 2011, pp. 98 ss.

 

[38] Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010 (a firma di Fiat Group Automobiles S.p.A, Fim, Uilm, Fismic, Ugl Metalmeccanici e Associazione Capi e Quadri Fiat), Allegato I, Sistema di relazioni sindacali.

 

[39] In argomento, L. Elia, Discorso, cit.: «la Costituzione, in una notevole misura, presuppone e assume, per così dire, il conflitto, impedendo che esso degeneri…»; G. Azzariti, Diritto e conflitti, cit., considera come i conflitti, anche irriducibili, possono «ottenere all'interno di alcuni «tipi» di ordinamenti giuridici una specifica legittimazione, ora nella forma di una loro mera accettazione ora in quella più impegnativa della loro esplicita integrazione. Ciò avviene negli ordinamenti pluralisti», in particolare «entro gli ordinamenti giuridici di democrazia costituzionale e pluralista» (p. 276); «l'endiade diritto e conflitti può essere interpretata anche come convivenza tra le due espressioni» (p. 22).   

 

[40] Sia sufficiente citare il riferimento agli «ostacoli di ordine economico e sociale» e alla previsione della loro rimozione (art 3, c. 2, Cost.).

 

[41] Cfr. G. Ferrara, I diritti del lavoro e la costituzione economica, in www.costituzionalismo.it, 26 novembre 2005: «il conflitto sociale non [è] stato né ignorato, né escluso, ma riconosciuto e regolato, rendendolo pacifico, ma dotando la parte più debole del conflitto delle armi necessarie…».

 

[42] G. U. Rescigno, Lavoro e costituzione, cit., p. 36; senza dimenticare che proprietà e iniziativa economica privata non sono diritti assoluti, sacri ed inviolabili, e che resta aperta la querelle sull'incompatibilità fra democrazia e capitalismo (nell'amplia bibliografia sul tema, si segnalano, recentemente, J.-P. Fitoussi, La démocratie et le marché, 2004, trad. it. La democrazia e il mercato, Feltrinelli, Milano, 2004; R. B. Reich, Supercapitalism. The Transformation of Business, Democracy and Everyday Life, 2007, trad. it. Supercapitalismo. Come cambia l'economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi Editore, Roma, 2008; M. Salvati, Capitalismo, mercato e democrazia, il Mulino, Bologna, 2009; M. Revelli, Democrazia e mercato, in M. Bovero, V. Pazé (a cura di), La democrazia in nove lezioni, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 92 ss.; S. Žižek, Dalla democrazia alla violenza divina, in G. Agamben, A. Badiou, D. Bensaïd, W. Brown, J.-L. Nancy, J. Rancière, K. Ross, S. Žižek, Démocratie, dans quel état?, 2009, trad. it. In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, 2010, pp. 155 ss.; in argomento, cfr. anche, sulla «susteinable globalisation», in particolare rispetto ai diritti umani, W. Benedek, K. De Feyter, F. Marrella (edited by), Economic Globalisation and Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 2007).

 

[43] Cfr. G. U. Rescigno, Lavoro e costituzione, cit., p. 52, che sottolinea l'ampio margine dei rapporti di forza fra le componenti sociali nel determinare la composizione dei conflitti, ma si veda anche C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, cit., pp. 300-301, che rileva, «posto che la costituzione ha previsto il mantenimento, almeno come forma predominante, dell'appropriazione privata dei beni di produzione e della loro gestione in regime di economia di mercato», come la stessa «ha ammesso che tale assetto, nell'attuale sua struttura e per i rapporti che fa sorgere, in ordine alla produzione dei beni e alla distribuzione del profitto, fra datori e prestatori di lavoro, ingenera una situazione di inferiorità di questi ultimi, ed ha di conseguenza assunto l'obbligo di rimuoverla».

 

[44] G. U. Rescigno, Lavoro e costituzione, cit., p. 42.

 

[45] Si riferisce ad una «garanzia debole» in relazione a quei diritti che prevedono soltanto la garanzia dell'obbligo di introdurre garanzie (L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 2. Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2007 p. 80, nonché, in relazione al diritto al lavoro come «diritto debole», privo di efficaci garanzie primarie, p. 406; più ampiamente, Id., Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 1. Teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007, spec. pp. 915 ss.).

 

[46] L. Ferrajoli, Principia iuris, Teoria della democrazia, cit., p. 93.

 

[47] Chiamando in causa in tal senso, per dirlo, con Ferrajoli, le «garanzie primarie» (cfr. spec. L. Ferrajoli, Principia iuris, Teoria del diritto, cit., pp. 668 ss.).

 

[48] Per tacere della possibilità di valutare una determinata scelta normativa in termini di impatto sull'impiego, anche in relazione al contesto temporale (la valutazione è da farsi sul breve periodo o a lungo termine?).

 

[49] L. Ferrajoli, Principia iuris, Teoria del diritto, cit., p. 673.

 

[50] Contra il diffondersi di una visione determinista e oggettiva del "mercato", non è inutile ricordare che si tratta di un modello economico, frutto di scelte politiche, di vinti e vincitori, non dato naturale, oggettivo, incontrovertibile e immutabile; vedi P. Bourdieu, Contre-feux, Propos pour servir à la résistence contre l'invasion néo-libérale, Raisons d'agir, Paris, 1998, p. 100: «il me semble donc que se qui est présenté comme un régime économique régi par les lois inflexibles d'une sorte de nature sociale est en réalité un régime politique qui ne peut s'instaurer qu'avec la complicité active ou passive des pouvoirs proprement politiques»; I. Wallerstein, European Universalism. The Rhetoric of Power, 2006, trad. it. La retorica del potere. Critica dell'universalismo europeo, Fazi, Roma, 2007, pp. VIII-X: la terza versione dell'appello all'universalismo consiste «nell'affermazione delle verità scientifiche del mercato, dell'idea secondo cui "non vi è alcuna alternativa", per i governi, se non accettare le leggi dell'economia neoliberista e agire in base a esse»; «i concetti di diritti umani e di democrazia, la superiorità della civiltà occidentale in quanto fondata su valori e verità universali e l'ineluttabilità della subordinazione al "mercato" ci vengono presentati come idee naturali. Ma non sono affatto tali».

 

[51] A. Fumagalli, Il diritto al default come contropotere finanziario, 2011, consultabile sul sito ww.sbilanciamoci.info .

 

[52] Ragiona di «diritto all'insolvenza» anche come «rifiuto di sottomettere la potenza vivente delle forze sociali al dominio formale del codice economico», F. Berardi Bifo, Paradosso del presente e diritto all'insolvenza, 26 ottobre 2011 (http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/10/27/franco-berardi-bifo-paradosso-del-presente-e-diritto-all%E2%80%99insolvenza/).

Da ultimo, sul tema, si segnala F. Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all'insolvenza, Quando sono le banche a dettare le politiche pubbliche, DeriveApprodi, Roma, 2011.

 

[53] Cfr. G. Viale, Un audit per far luce sul debito, in il manifesto, 29 novembre 2011 (si veda anche Id., La conversione ecologica, NdA Press, Rimini, 2011, per una proposta di modello di sviluppo differente).

 

[54] Per non accedere tout court alle tesi dell'incompatibilità fra democrazia e capitalismo e, dunque, all'esclusione del modello capitalista dalla sfera del decidibile in una democrazia (sostanziale). Non si assiste del resto oggi ad una insofferenza del finanzcapitalismo per la democrazia?

 

[55] Si ricorda, in proposito, il rinvio del testo di legge costituente il c.d. collegato lavoro da parte del Presidente Napolitano il 31 marzo 2010 (il testo integrale del messaggio con la richiesta motivata di una nuova deliberazione delle Camere è consultabile in http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=3&key=1820) .

 

[56] Statuto Cgil, Tit. I, art. 2: «La CGIL basa i propri programmi e le proprie azioni sui dettati della Costituzione della Repubblica e ne propugna la piena attuazione».

 

[57] Accordo del 28 giugno 2011, terzo punto delle premesse: «la contrattazione deve esaltare la centralità del valore del lavoro anche considerando che sempre più è la conoscenza, patrimonio del lavoratore, a favorire le diversità della qualità del prodotto e quindi la competitività dell'impresa».

La competitività è un must anche dei documenti europei, da ultimo si veda il Patto euro plus - Coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza (Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, Conclusioni, EUCO 10/1/11 REV 1, Allegato 1, spec., fra gli obiettivi, «a. Stimolare la competitività»).

 

[58] La «libera competizione» pare peraltro una finzione dietro cui si declina una progressiva concentrazione. Si veda, esemplificativamente, il dato (riportati da A. Fumagalli, Il diritto al default, cit.) che vede, al primo trimestre 2011, il controllo di oltre 90% del totale dei titoli derivati nelle mani di cinque Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie (Sim) e cinque banche, o più ampiamente, i dati riportati in L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011.

 

[59] Punto, quest'ultimo, eseguito con l'art. 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con  modificazioni in legge 14 settembre 2011, n. 148, la c.d. manovra-bis, che prevede altresì la derogabilità rispetto alla legge (cfr. infra). In senso critico sull'«aziendalizzazione» dell'art. 8, cfr., per un primo commento, M. Rusciano, L'articolo 8 è contro la Costituzione,in Eguaglianza&Libertà, rivista di critica sociale on line, 8 settembre 2011, che, peraltro, sembra valutare invece positivamente l'aziendalizzazione ex Accordo del 28 giugno 2011 in quanto delegata dal contratto nazionale.

 

[60] Lettera della Banca Centrale Europea al Governo italiano, 5 agosto 2011, lett. b).

 

[61] Cfr., ad esempio, art. 30 del c.d. collegato lavoro (legge n. 183 del 2010).

 

[62] Non manca, peraltro, chi sottolinea la centralità che nell'Accordo assume il contratto collettivo nazionale o chi (U. Romagnoli, L'ambiguo compromesso del 28 giugno, in Eguaglianza&Libertà, rivista di critica sociale on line, 22 luglio 2011) definisce «sfuggente» il quadro d'insieme e contraddittori gli orientamenti, rilevando, fra l'altro, come «il principio della preminenza del contratto collettivo nazionale (punti 2 e 3) coesiste con quello della sua derogabilità».

 

[63] Si veda spec. il punto 9 dell'Accordo.

 

[64] Le parole pronunciate in sede di conferenza stampa da M. Sacconi si possono leggere sui siti www.ilsole24ore.com e www.carta.org

.

 

[65] Dichiarazioni programmatiche del Governo presentate da M. Monti al Parlamento (Camera dei Deputati, 17 novembre 2011).

 

[66] …un sistema fiscale che certo non è improntato al criterio della progressività e che - emblematico è l'innalzamento di un punto percentuale dell'Iva con la manovra finanziaria bis di cui al decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con  modificazioni in legge 14 settembre 2011, n. 148 (art. 2) - colpisce maggiormente le fasce più deboli, contribuendo ad incrementare la crescita della disuguaglianza.

 

[67] DDL costituzionale recante Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, approvato dal Consiglio dei Ministri dell'8 settembre 2011 e presentato il 15 settembre 2011 (Atto Camera n. 4620). Vari sono i disegni di legge costituzionale presentati in Parlamento in tema di stabilità di bilancio; si veda, ad esempio, la proposta a firma di Bersani ed altri, Modifiche agli articoli 53, 81, 119 e 123 e introduzione del titolo I- bis della parte seconda della Costituzione, in materia di equità tra le generazioni e di stabilità di bilancio (Atto Camera n. 4646). Nelle Dichiarazioni programmatiche del Governo presentate da M. Monti al Parlamento (cit.) la prima fra le azioni previste riguarda il «vincolo costituzionale del pareggio di bilancio»; conseguentemente, le Camere hanno approvato in prima deliberazione (AC n. 4205, approvato il 30 novembre 2011, e AS 3047, approvato il 15 dicembre 2011) il ddl costituzionale recante Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, che riunifica e assorbe i disegni di legge in materia.

Si concorda con chi si domanda quale sia l'idea di politica economica retrostante l'idea del pareggio di bilancio, che non è «innocente», o derivata dalla semplice esigenza di non spendere più di quanto si guadagna, ma sottintende in primo luogo «una precisa imputazione dell'attuale crisi finanziaria ai presunti eccessi dello Stato sociale» (così M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica, cit., p. 65), che, dunque - si può aggiungere -, deve essere smantellato, nell'orizzonte di un ribaltamento del «complessivo impianto costituzionale dei rapporti dell'economia con la politica» (ibidem, p. 69); o con chi rileva come il principio del pareggio di bilancio sia «un principio neoliberista», che mira a rimuovere la possibilità di operare, attraverso il bilancio dello Stato e il deficit pubblico, un riequilibrio sociale e territoriale (B. Amoroso, Euro in bilico. Lo spettro del fallimento e gli inganni della finanza globale, Castelvecchi, Roma, 2011, pp. 8-10). Per opinioni, invece, non sfavorevoli ad una modifica dell'art. 81 Cost., cfr. A. Pace, Pareggio di bilancio: qualcosa si può fare, in Rivista AIC, 3/2011, che accoglie peraltro alcune perplessità sollevate in dottrina e insiste sulla necessità di riconoscere alla Corte dei Conti il potere di sollevare in via diretta questione di fronte alla Corte costituzionale per violazione del dovere di pareggio; G. Bognetti, Il pareggio del bilancio nella carta costituzionale, in Rivista AIC, 4/2011. Sull'illogicità economica del pareggio stesso, cfr., sinteticamente, M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica, cit., p. 67; considera una farsa, da una prospettiva economica, il pareggio di bilancio, A. Fumagalli, Il diritto al default, cit.

 

[68] C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, cit., pp. 301-302.

 

[69] Sull'inattuazione dell'art. 39 Cost. e sull'estensione giudiziaria dei contratti collettivi di diritto comune, cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Il sistema delle fonti del diritto, Utet, Torino, 1988, pp. 247 ss.

 

[70] Cfr. M. Prospero, Il costituzionalismo e il lavoro, in Dem. e dir., 2/2008, p. 136: «solo quando il contratto non è più inteso come una mera vicenda individuale è possibile organizzare il peso della soverchiante forza numerica del lavoro per contenere la potenza dominante del capitale».

 

[71] Nello stesso senso si veda, da ultimo, l'art. 8 della c.d. manovra finanziaria-bis (decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con  modificazioni in legge 14 settembre 2011, n. 148), intitolato, fra l'altro, con una locuzione che vuol essere accattivante, «sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità».

 

[72] In argomento, cfr. G. Zagrebelsky, in E. Mauro, G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia, cit., che, a proposito degli accordi di Mirafiori, rileva come essi «prefigurano un sistema di relazioni sindacali che, dichiaratamente da parte aziendale, aspira a estendersi in generale come deroga alla logica dell'articolo 39 della Costituzione» (p. 57); G. Ferraro, Le relazioni industriali dopo «Mirafiori», in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 1/2011, che sottolinea, sempre in relazione agli accordi Fiat, la «dimensione asindacale» (p. 122).

 

[73] Cfr. C. Mortati, Art. 1, cit., p. 20.

 

[74] Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di martedì 15 ottobre1946, in http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/I_Sottocommissione .

 

[75] Per un approfondimento, si veda, ampiamente, A. Cantaro, Il diritto dimenticato, cit., pp. 69 ss.; nonché, G. Azzariti, Brevi notazioni, cit.; M. G. Garofalo, È ineluttabile il passaggio, cit.; sulle politiche in tema di lavoro e, in specie, sulla flexicurity, recentemente, G. Bronzini, Lavoro e tutela dei diritti fondamentali nelle politiche europee del «dopo Lisbona», in Pol. dir., 1/2008, pp. 141 ss., nonché, per un approccio più generale, L. Gallino, Il lavoro non è una merce, cit., senza dimenticare la legislazione e la giurisprudenza comunitaria degli ultimi anni (per un primo approccio, da ultimo, L. Patruno, Il caso Rüffert: la Corte di giustizia CE fa un altro passo avanti nella "via giudiziaria" al dumping sociale, in www.costituzionalismo.it , fasc. 2/2008).

 

[76] Il "caso" di conflitti di interessi pare in realtà la norma, ma il configurarlo in termini residuali è parte della strategia concertativa che muove dalla negazione del conflitto per meglio assorbirne le rivendicazioni.

 

[77] C. Mortati, Art. 1, cit., p. 20: «è apparso correttivo necessario» della sperequazione fra le parti «conferire rilievo costituzionale al diritto di sciopero… senza che ad esso corrisponda un potere di serrata del datore, perché questo comprometterebbe l'equilibrio delle forze» che si vuol raggiungere.

 

[78] È evidente la distanza con una Repubblica «fondata sul lavoro» e che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4, Cost. italiana). Si veda anche l'art. 5 bis TFUE prevede che l'Unione «tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale…». Quale impegno comporta il "tener conto"? "Adeguata" rispetto a cosa? Quale che sia la risposta, non pare garantire quella dignità, quella «esistenza libera e dignitosa» per il lavoratore e la sua famiglia cui si riferisce, ad esempio, l'articolo 36 della Costituzione italiana.

 

[79] Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, Conclusioni (EUCO 10/1/11 REV 1), I, 1: «il Consiglio europeo ha adottato in data odierna un pacchetto globale di misure intese a rispondere alla crisi, preservare la stabilità finanziaria e porre le basi di una crescita intelligente e sostenibile basata sull'inclusione sociale e tesa a creare occupazione: si rafforzeranno così la governance economica e la competitività della zona euro e dell'Unione europea».

 

[80] Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, Conclusioni, Patto euro plus, cit.; per un primo approfondimento, cfr. L. Patruno, La "teologia economica" dell'Europa e il "banco da macellaio" (Schlachtbank) della Storia, in www.costituzionalismo.it, 3/2011.

 

[81] Cfr. G. Cremaschi, Il "porcellum" sindacale firmato Cgil.  Ribellarsi è giusto, in Liberazione, 30 giugno 2011; sottolineano l'emarginazione della pronuncia dei lavoratori F. Bertinotti, S. Cofferati, G. Ferrara, Accordo sindacati-Confindustria. Democrazia irriconoscibile, in il manifesto, 5 luglio 2011.

 

[82] Si noti, fra l'altro, che in tale ipotesi non si discorre nemmeno di un sindacato di minoranza (sul ruolo della Fiom e sulla sua trasformazione, cfr. G. Polo, Ritorno di Fiom, manifestolibri, Roma, 2011).

 

[83] Si veda l'accordo firmato a Mirafiori (Torino) da Fiat Group Automobiles S.p.A, Fim, Uilm, Fismic, Ugl Metalmeccanici e Associazione Capi e Quadri Fiat il 23 dicembre 2010 che sigla la chiusura di spazi di rappresentanza e azione sindacale alla Fiom in quanto non firmataria dell'accordo. Da ultimo, sulla questione, in relazione ai contratti collettivi relativi a Pomigliano, si è pronunciato il Tribunale ordinario di Torino in funzione di giudice del lavoro, sent. n. 4020 R.G.L. 2011, dichiarando l'antisindacalità della condotta del Gruppo Fiat nella parte in cui «determina, quale effetto conseguente, l'estromissione di Fiom-Cgil dal sito produttivo di Pomigliano d'Arco» (respingendo peraltro contestualmente la richiesta di declaratoria di illegittimità dei contratti del 29 dicembre 2010 e del 17 febbraio 2011). Per una ricostruzione della vicenda degli accordi Fiat, cfr., da ultimo, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, M. Rossi, Le nuove forme di accordi tra sindacati e impresa: una cronaca a partire dal caso Fiat, in Rivista AIC, 3/2011; per una sintesi in specifico delle ricadute sulla posizione della Fiom, C. Guglielmi, L'accordo di Mirafiori. Prime riflessioni su "la fabbrica Italia", in www.dirittisoci aliecittadinanza.org , 12 gennaio 2011, p. 9; G. Ferraro, Le relazioni industriali, cit., p. 124.  

 

[84] Si noti anche come lo stesso Accordo sia stato sottoscritto, ad esempio dalla Cgil, senza il coinvolgimento degli iscritti (cfr., per rilievi critici sul punto, la dichiarazione di G. Rinaldini, coordinatore de La Cgil che Vogliamo, 21 settembre 2011).

 

[85] G. Cremaschi, Il "porcellum Cgil", cit. Contra, nel senso che l'intesa raggiunta «conferma la necessità di coinvolgere gli iscritti e i lavoratori durante l'intero iter negoziale», cfr. il Documento finale del Comitato direttivo nazionale Cgil del 5 luglio 2011 ( www.cgil.tn.it/importdoc/doc/110705_documento_finale_direttivo_.pdf ).

 

[86] Nella nota della Segreteria Confederale Cisl sull'Accordo del 28 giugno 2011 uno degli elementi di «grande soddisfazione» per l'importanza dell'Accordo, accanto all'essere un «segnale di responsabilità delle parti sociali» e «l'ultimo decisivo tassello della riforma della contrattazione collettiva del gennaio 2009», è rappresentato dalla conferma del modello delle Rsa, «anche in proiezione futura»; per la Cgil, invece, l'Accordo «rafforza il ruolo delle Rsu» (così si legge nel Documento finale del Comitato direttivo nazionale Cgil del 5 luglio 2011, cit.), anche se è da notare il dissenso dell'Area programmatica La Cgil che vogliamo che critica proprio l'abbandono dell'obiettivo della generalizzazione delle Rsu (nonché, più ampiamente, i contenuti dell'Accordo; cfr. il commento reperibile sul sito www.lacgilchevogliamo.it/cms/ ).

 

[87] Gallino: «Così si va a destra», intervista di F. Paternò, in il manifesto, 6 luglio 2011.

 

[88] F. Bertinotti, S. Cofferati, G. Ferrara, Accordo sindacati-Confindustria, cit.

 

[89] Il calcolo della rappresentatività è effettuato utilizzando «come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori», certificati dall'Inps e ponderati con i consensi ottenuti nelle elezioni delle Rsu (punto 1 dell'Accordo).

 

[90] Cfr. P. Alleva, Merito e prospettive dell'accordo interconfederale 28/06/2011, in www.dirittisocialiecittadinanza  , 4 luglio 2011, il quale, muovendo da una valutazione positiva del rilievo dato alla rappresentatività nell'Accordo, individua due possibili percorsi: «o in direzione di una democrazia effettiva, per cui la rappresentatività degli attori negoziali costituisce il primo pilastro di una costruzione democratica la quale ha come secondo pilastro… la ratifica da parte degli interessati dell'impiego del mandato rappresentativo, o, invece, in direzione di un accentuato autoritarismo», con «una sorta di manganello calato sui sindacati di minoranza e soprattutto sulla possibilità e volontà dei lavoratori destinatari dell'accordo»; U. Romagnoli, L'ambiguo compromesso del 28 giugno, cit., che rileva come «gli attori collettiviesibiscono una concezione proprietaria della rappresentanza e della contrattazione collettiva che non si sa se definire proterva o ingenua».

 

[91] Accordo del 28 giugno 2011, punto 4 delle premesse.

 

[92] Dalla bozza sul sito www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/statuto_lavori/bozzaddlstatutolavori.pdf , art. 1, c. 2 .

 

[93] Contra cfr. la dottrina, maggioritaria, che saluta come elemento che rafforza la tutela dei diritti il riferimento all'essenzialità.

 

[94] Dichiarazioni programmatiche del Governo presentate da Monti al Parlamento, cit. (corsivo mio).

 

[95] Oltre che, ovviamente, dal suo essere sempre più "flessibile".

 

[96] C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, cit., p. 301. Cfr., fra le altre, Corte cost., sent. n. 101 del 1968, che vede l'intervento del legislatore «quanto mai opportuno o addirittura essenziale per la tutela di dati interessi» (nel caso di specie si discuteva della disciplina dei rapporti individuali di lavoro subordinato).

 

[97] Prova ne sono gli Accordi di Pomigliano (15 giugno e 29 dicembre 2010) e di Mirafiori (23 dicembre 2010), tipico esempio di concession bargainig o give-back agreements.

 

[98] Il termine classe è ormai out ma rinvia ad una realtà che non sparisce semplicemente non pronunciandone più il nome, come in una storia, a contrario, del barone Lamberto (G. Rodari, C'era due volte il barone Lamberto ovvero I misteri dell'isola di San Giulio, Einaudi, Milano, 1978). Per primi riferimenti bibliografici: J. Holloway, Che fine ha fatto la lotta di classe?, manifestolibri, Roma, 2007; A. Bagnasco, Dove sono finite le classi sociali?, in www.costituzionalismo.it , 12 luglio 2007; L. Gallino, La classe invisibile alla ricerca di una voce, in la Repubblica, 24 novembre 2009; D. Bensaïd, Lo scandalo permanente, in G. Agamben, A. Badiou, D. Bensaïd, W. Brown, J.-L. Nancy, J. Rancière, K. Ross, S. Žižek, In che stato è la democrazia?, cit., che critica l'ascrizione della scomparsa delle classi sociali dal lessico alla «fatalità sociologica irreversibile» e non al «lavoro politico – della promozione ideologica e legislativa dell'individualismo concorrenziale – sul sociale».

 

[99] J. S. Mill, Considerations on Representative Government, 1861, trad. it. Considerazioni sul governo rappresentativo, a cura di M. Prospero, Editori Riuniti, Roma, 1997, cap. III, pp. 48-49: le varie classi posseggono interessi differenti e «quando il potere è appannaggio di una sola classe questa lo eserciterà deliberatamente in vista dei propri interessi e a repentaglio degli altri interessi in causa»; «senza i loro difensori naturali, gli interessi delle classi escluse corrono sempre il rischio di essere trascurati», «per quanto sincera possa essere l'intenzione di chi vuole proteggere gli interessi degli altri».

 

[100] G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, cit., p. 257: tra legge e contratto collettivo si applica «il principio di preferenza della legge, nel senso che, se c'è una legge imperativa, essa prevale sul contratto».

 

[101] Art. 8, c. 2-bis, della legge 14 settembre 2011, n. 148, c.d. manovra finanziaria-bis, che converte, come detto, con modificazioni, il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Si anticipa così quanto previsto nel disegno di legge delega per la predisposizione di uno Statuto dei lavori, all'art. 1, c. 2, lett. c), ricordato ante.

 

[102] In tema cfr., da ultimo, L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit.; B. Amoroso, Euro in bilico, cit.; sull'intervento pubblico come strumento a sostegno del capitalismo, cfr. G. Bucci, Diritto e politica nella crisi della globalizzazione, in Dem. e dir., 2/2009.

 

[103] Vedi, sul tema, F. Galgano, Lex mercatoria, il Mulino, Bologna, ed. 2010, spec. cap. IX; M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, il Mulino, Bologna, 2000; in specie, per riflessioni sul rapporto fra diritto e territorio, N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari, 2001.

 

[104] Cfr. S. Rodotà, Quando il fango cancella la politica, in la Repubblica, 29 dicembre 2010: « la vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino».

Emblematico il commento di Sergio Marchionne all'art. 8 (l. 148/2011): «per l'ad del Lingotto "la mossa fatta dal ministro Sacconi con l'articolo 8 ha risolto tantissimi problemi"» (Marchionne promuove la manovra "Ci ha dato ciò che ci serviva", www.repubblica.it , 13 settembre 2011). Al commento segue l'azione: la volontà del gruppo Fiat di estendere il modello Pomigliano-Mirafiori a tutti gli stabilimenti del gruppo, applicando l'art. 8 e derogando al contratto collettivo nazionale (novembre 2011).

 

[105] Le possibilità offerte dall'art. 8 paiono contraddire i riferimenti alla rappresentatività del sindacato presenti nell'Accordo del 28 giugno 2011 (invero - come detto – suscettibili di declinazione autoritaria in quanto nulla è garantito quanto alla formazione e alla conclusione degli accordi); sul punto, cfr. G. Alleva (Accordi sindacali. Alleva: «Articolo 8 bomba inesplosa», consultabile in www.terranews.it , settembre 2011), secondo cui l'articolo 8, consentendo a qualsiasi sindacato territoriale di derogare alla contrattazione collettiva e allo Statuto dei lavoratori, cozza con le regole stabilite nell'accordo del 28 giugno, che è in grado, peraltro, di disinnescarne la portata: «l'articolo 8 sta all'accordo del 28 giugno come la bomba sta al petardo».

 

[106] Cfr. L. Gallino, Come abolire il diritto al lavoro, in la Repubblica, 5 settembre 2011: «il legislatore poteva condensare l'intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro"»; G. Ferraro, Le relazioni industriali, cit., p. 129: «si intravede un sistema anomico, fortemente condizionato da situazioni di potere contingenti e territorialmente variabili, in un quadro regolativi sommario ed instabile, suscettibile di continue revisioni».

 

[107] Si veda anche, per un riferimento al ricorso alla conciliazione e all'arbitrato, il punto 12 dell'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009.

 

[108] Si ricorda, parallelamente, anche la disincentivazione a ricorrere al giudice, con la revisione, passata quasi sotto silenzio, della gratuità del processo del lavoro, per cui ogni controversia di lavoro é assoggettata al versamento di un contributo unificato, diversificato secondo il reddito del lavoratore e il valore della causa (cfr. art. 37, c. 6, in uno dei provvedimenti omnibus in tema di stabilità finanziaria, il decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni in legge 15 luglio 2011 n. 111).

 

[109] Si veda, in specifico, l'art. 31 (segnatamente i commi 5 e 8, in relazione alla facoltà di decidere secondo equità, e il comma 10 per la previsione di clausole compromissorie); per un commento, fra gli altri, cfr. G. Ferraro, La composizione stragiudiziale delle controversie nel «Collegato lavoro», in Riv. Dir. Sicurezza Sociale, 2/2010; A. Piccinini, C. Ponterio, La controriforma del lavoro, in Quest. giust., 3/2010; E. Olivito, Il collegato lavoro alla finanziaria. Alcune osservazioni sulle controversie di lavoro e sull'ambito del sindacato giurisdizionale, in Rivista AIC, 1/2011.

 

[110] Nelle Dichiarazioni programmatiche del Governo presentate da M. Monti al Parlamento (cit.), ad esempio, è citata più volte l'equità, per lo più in relazione ai sacrifici da farsi, mentre «giustizia» compare solo in relazione ai tempi della giustizia civile.

 

[111] Per un caso di "violazione esplicita" si veda, peraltro, l'Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010 che prevede 200 ore di straordinario di cui 120 decise unilateralmente dall'azienda, con la conseguenza che, richieste a "turni interi", in aggiunta ad una turnazione su sei giorni, comportano che si possa arrivare a ben 15 settimane all'anno in cui il lavoratore lavora sette giorni su sette (cfr. C. Guglielmi, L'Accordo di Mirafiori, cit.), con buona pace del «diritto al riposo settimanale» (art. 36, c. 3).

 

[112] Qui purtroppo la vaghezza di alcune disposizioni costituzionali, come il rinvio alla legge in tema di diritto di sciopero (art. 40) o di durata massima della giornata lavorativa (art. 36, c. 2), non aiuta.

 

[113] Così almeno si registra di fatto, ferma restando ovviamente la possibilità di procedere a ratifica con altra fonte e nulla ostando, ad esempio, ad una autorizzazione alla ratifica e ad una ratifica con legge costituzionale.

 

[114] Ad adiuvandum si potrebbe citare anche l'art. 75, comma 2, della Costituzione laddove sottrae le leggi di autorizzazione alla ratifica a referendum abrogativo conferendo così alle stesse una forza passiva particolare.

 

[115] Sullo stretto legame fra artt. 1 e 3, c. 2, Cost., cfr., per tutti, C. Mortati, Art. 1, cit., spec. pp. 13-14. 

 

[116] Cfr. P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza, manifestolibri, Roma, 2011, che, come alternativa alla constatazione della svolta autoritaria nelle relazioni tra capitale e lavoro, si riferisce alla Costituzione come «riferimento ideale» e intesa «non come trincea da difendere, ma come programma da attuare».