mercoledì 12 gennaio 2011

La difficile costruzione dello Stato nazionale in Italia

L'Italia non è stata un paese politicamente unito dalla discesa dei Longobardi nel 568 fino al 1860. Per tredici secoli la storia d'Italia è storia di diverse formazioni politiche e statali, che si confrontano dentro un sistema in continua tensione tra Stati italiani e potenze straniere. Si può parlare quindi di un carattere multinazionale della storia italiana pre-unitaria, e anche di una dimensione fortemente regionale della storia politico-sociale del paese.[1]

Il processo di unificazione italiana andò ben oltre i progetti dei suoi artefici liberali e moderati e le previsioni delle potenze alleate. Gli accordi del 1858 tra Cavour e Napoleone III prevedevano la costituzione di un regno dell'Alta Italia per la dinastia dei Savoia. Un altro regno doveva essere formato dall'unione tra la Toscana e la gran parte dello Stato pontificio. Il regno delle Due Sicilie doveva restare qual era. Il papa avrebbe conservato Roma e il territorio circostante e assunto la presidenza della confederazione degli Stati italiani.

Napoleone III sostenne questo progetto per espandere la potenza della Francia e provare a realizzare una ripresa della politica bonapartista, con l'insediamento di sovrani francesi sia a Firenze con Girolamo Bonaparte, che a Napoli con Luciano Murat. Ma il movimento nazionale italiano, nelle due correnti liberale e democratica, dimostrò una forza superiore alle previsioni e mandò all'aria le pretese egemoniche sulla penisola di Napoleone III. A contrastare questo disegno neo-napoleonico pensò anche la Gran Bretagna, che rifiutò di associarsi alla Francia per impedire lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e poi nel Mezzogiorno continentale e contribuì così al più largo processo di unificazione italiana.[2]

La gran massa del popolo italiano – contadini e cattolici – era rimasta ai margini di questo processo. Quindi si presentava immediatamente il problema delle deboli basi sociali del nuovo Stato, aggravato dalla accelerazione estrema del processo di costruzione della nazione e di uno spirito nazionale unitario. I problemi fondamentali del nuovo Stato italiano riguarderanno perciò il consolidamento delle strutture istituzionali e della compagine nazionale.

Cavour intendeva procedere all'unificazione amministrativa del paese con un programma  di decentramento e di autonomia, secondo un modello liberale di ascendenza inglese fondato sull'autogoverno locale, condiviso dai moderati lombardi, emiliani e toscani e dagli autonomisti liguri e sardi. Questi progetti furono bloccati subito dall'esplodere di una questione delle province meridionali: rivolte contadine e brigantaggio. Il disegno di organizzazione dello Stato secondo i principi del decentramento amministrativo fu accantonato. Si definirono invece istituzioni accentrate  di derivazione giacobino-napoleonica, con i larghi poteri di governo provinciale affidati ai prefetti, e di carattere oligarchico sul terreno dei rapporti politici.[3]

Un ordinamento regionale del nuovo Stato era impedito proprio dal forte radicamento degli Stati preunitari e dalla coincidenza delle regioni con gli antichi Stati. Il forte carattere statuale dei territori regionali avrebbe finito per trasferire nel nuovo Stato i poteri degli antichi regimi e delle loro classi dirigenti. L'accantonamento della dimensione regionale, che pure restò forte nell'identità collettiva, fu così preliminare alla definizione di un sistema amministrativo uniforme e centralizzato.

Eppure la realtà corrispondeva a una Italia regionale, non a una Italia nazionale. Gli italiani vivevano separati da regione a regione, per diversi fattori concorrenti alla disomogeneità e alle divisioni interne del paese. C'erano l'isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione, la lingua italiana parlata da poco più del 2% della popolazione – ch'era pure la percentuale degli elettori abbienti ammessi al voto e alla vita politica -, le profonde differenze di clima ma soprattutto economiche e sociali tra Nord e Sud.[4]

A differenza dei paesi europei di più antica tradizione unitaria, dove la formazione di una comunità nazionale segue lentamente la costituzione degli organismi statali, in Italia i processi di statalizzazione e di nazionalizzazione procedono insieme, in forme necessariamente contratte e non secondo tempi distanti e fasi diverse. Non risulterà semplice colmare le tante, profonde fratture che dividono le aree regionali e provinciali; che oppongono ceti organici alla semplice società liberale governata dalle élites aristocratiche e borghesi e classi tendenti alla formazione di una più articolata società di massa; che separano nettamente il diffuso e rappresentativo mondo cattolico, stretto intorno all'isolamento pontificio, dalle istituzioni e dai progetti del Regno d'Italia e della società liberale.[5]

Il rapporto tra Stato e società nell'Italia liberale si sviluppa anzitutto nella ricerca di un equilibrio tra la concentrazione della politica nello Stato e il riconoscimento di un'autonomia della società, che si caratterizza proprio per la sua depoliticizzazione. Il processo di politicizzazione della società si svilupperà sia con l'accentuarsi dei contrasti sociali, sia col superamento dei conflitti localistici e personalistici. La nazionalizzazione della politica procederà col diffondersi del voto e quindi dello scambio tra centro e periferia, attraverso l'incanalamento e la contrattazione degli interessi particolaristici e localistici con i centri istituzionali.[6]

L'idea nazionale si era fondata, nel primo Ottocento, su una politica emancipatrice nei confronti dei regimi autoritari di tipo tradizionale. Nell'ultimo quarto del secolo XIX si determinerà una profonda trasformazione del significato dell'idea nazionale. Questa si avvaleva ora di una politica volta al mantenimento dello statu quo all'interno e all'esterno, che intendeva organizzare gruppi emarginati: il movimento dei lavoratori, le minoranze etniche.[7]

La nazione moderna è stata anche considerata una invenzione dei nazionalismi e dei progetti nazionalistici degli Stati ottocenteschi. In questo senso le nazioni non erano la causa della fondazione di un Stato, ma risultavano esserne la conseguenza.[8] Nelle interpretazioni attuali dei nazionalismi si confrontano posizioni di tipo modernizante e valutazioni più attente agli aspetti delle tradizioni.

Così il nazionalismo viene visto, ben più che come forma delle tradizioni e degli arcaismi delle società agricole, come la sostanza della modernizzazione industrialista, che sostituisce una superiore cultura standardizzata alle diverse culture locali.[9] Lungo questa scia si è insistito sulla compresenza della identità nazionale con diverse identificazioni sociali e regionali.[10]

Le élites socio-politiche europee si sforzarono, nell'Ottocento, di "insegnare la nazione" a contadini, braccianti, artigiani, operai. Provarono a convincere popolazioni chiuse nei ristretti confini di borghi e villaggi di essere partecipi di larghe quanto invisibili comunità nazionali. Questa comune appartenenza nazionale implicava un atto di lealtà e di consenso alle istituzioni pubbliche che disciplinavano la vita di tutti.[11]

L'idea di nazione, nell'ultimo quarto del XIX secolo, assunse sempre più i caratteri di potenza statale tendenzialmente aggressiva. L'idea nazionale divenne in misura crescente uno degli elementi costitutivi dell'autoconsapevolezza politica degli strati borghesi e piccolo-borghesi emergenti. L'identificazione della borghesia con la totalità della nazione non fu che un riflesso dell'affermazione di superiorità degli strati borghesi, provocata dai crescenti profitti e dall'acquisito rilievo sociale. Benché siano importanti gli aspetti culturali nella "costruzione delle nazioni", uno stretto rapporto con la formazione delle identità nazionali ebbe il mutamento negli indirizzi di politica economica.

Le nuove misure di protezione dei mercati e delle produzioni interne, introdotte nei paesi in via di sviluppo come l'Italia di fine ottocento, erano propagandati con una aggressiva retorica degli "interessi nazionali". Le prime norme di una legislazione sociale furono varate nella Germania di Bismarck, con l'intento conservatore di attenuare il disagio sociale provocato dal processo di industrializzazione ed evitare così il rischio di conflitti violenti e sbocchi di tipo rivoluzionario. Attraverso questa via di interventi sociali si avviava l'inserimento delle masse popolari dentro i nuovi ordinamenti statali nazionali. Era il processo di "nazionalizzazione delle masse".[12]

Una fondamentale contraddizione interna all'ordinamento liberale era quella che si poneva tra l'autoritarismo e il vero e proprio imperialismo del comando statale – massimo nelle concezioni e nelle realizzazioni dello Stato etico e dello Stato di diritto di ascndenze germaniche – e i limiti teorici e pratici di espressione dello Stato minimo fondato sulla prevalenza delle libertà individuali, e soprattutto dell'individualismo proprietario, nelle forme adottate specialmente nella teoria e nella pratica sociale e politica dell'esperienza britannica.

Il liberalismo italiano affronta questa contraddizione scegliendo un modello statocentrico. All'enfasi sul ruolo dello Stato, inteso come motore e principale referente della costruzione dell'ordinamento liberale, in Italia si accompagnano la subordinazione dei diritti e delle libertà dei cittadini e la sottovalutazione dell'autonomia e dell'iniziativa della società civile rispetto alla centralità dello Stato. Ne risulterà uno Stato sostanzialmente debole, ben diverso dallo Stato forte costruito in Germania intorno al nucleo della tradizione burocratica, e lontano anche dal più equilibrato rapporto tra Stato, libertà e società conseguito nel modello inglese.[13]

La suprema centralità dello Stato nel modello che tiene insieme Stato, società e libertà viene teorizzata e preparata per l'attuazione politica dalla scienza del diritto pubblico, rinnovata in Italia dal giurista siciliano Vittorio Emanuele Orlando. Nel clima di diffusa fiducia nelle scienze che pervade l'Europa ottocentesca e nel processo di generale riorganizzazione epistemologica delle scienze sociali, che darà luogo ai differenziati specialismi delle scienze "pure" dell'economia, del diritto, della politica, Orlando ridefinisce, sul finire dell'Ottocento, lo statuto scientifico della giuspubblicistica sulla base del metodo giuridico, del formalismo positivistico, fondato sui criteri dell'astrattezza, della separatezza, del tecnicismo. Con questi strumenti produce una teoria della crisi della forma di governo parlamentare liberale e un progetto di superamento di questa crisi attraverso l'edificazione dello Stato di diritto italiano, basato sui principi di legalità. dei diritti pubblici soggettivi, della giustizia amministrativa.[14]

Per Orlando lo Stato di diritto si configura come una persona giuridica, distinta dal governo e dalla società. I problemi della monarchia costituzionale si trasformano nella moderna dottrina dello Stato di diritto, che si configura come supremazia "giuridica" dello Stato rispetto agli emarginati principi "politici" sia del re che del popolo. La forma di governo specifica dello Stato di diritto  e dell'evoluzione della monarchia rappresentativa è il governo di gabinetto, punto d'incontro tra la prerogativa regia e l'influenza politica parlamentare. Qui il re esercita un potere effettivo nella formazione del governo e la maggioranza parlamentare non esprime un indirizzo politico vincolante. In tal caso infatti si avrebbe un governo di partito, che romperebbe il delicato equilibrio dualistico proprio della monarchia costituzionale nella forma dello Stato di diritto.

Il rifiuto radicale del governo di partito, in questo modello costituzionale, comporta l'altrettanto radicale rifiuto del partito politico. La maggioranza parlamentare non si forma intorno a un preventivo indirizzo politico, presentato alla prova del confronto elettorale. Ma scaturisce soltanto dopo le elezioni, che non operano alcuna trasmissione di potere da un popolo presunto sovrano ai suoi rappresentanti, bensì una mera designazione dei cittadini più capaci di svolgere il ruolo di legislatori e di governanti.[15]

L'assenza della forma-partito nell'esperienza politica del liberalismo italiano tra Ottocento e Novecento, l'assenza in Italia di un partito liberale (o  anche conservatore) è legata all'affermazione della teoria e della pratica della sovranità dello Stato-persona e del governo di gabinetto. La dottrina liberale italiana dello Stato di diritto afferma una forma di normativizzazione giuridica della politica e ingloba dentro di sé la nazione, la società e il popolo. Questo tipo di Stato regola una società semplice, qual è quella liberale ottocentesca, dove sono da eliminare i conflitti, ritenuti distruttivi della superiore unità statale. Questo progetto unitario di governo non può essere diviso né dai contrasti politici tra i partiti, né dagli scontri d'interesse tra i gruppi sociali e tra le grandi concentrazioni economiche.

La società civile, in questo modello statocentrico, risulta quindi assorbita nello Stato. Si è osservato che avanza una forma di socializzazione dello Stato che .[16] Nel modello liberale italiano le istituzioni sociali che hanno una rilevanza collettiva sono immediatamente trasformate in enti pubblici: Camere di Commercio, Ordini professionali. Comuni e province  non hanno carattere originario e indipendente rispetto allo Stato, com'è ad esempio in Gran Bretagna. Gli enti locali in Italia sono considerati organi dello stato, si configurano come articolazioni del potere centrale e si distinguono poco dagli uffici periferici dello Stato.[17]

Questa centralità dello Stato riduce lo spazio e il peso dei principi di libertà e dei diritti dei cittadini. Lo Stato, con la sua autorità, viene prima degli individui con i loro diritti, che non sono concepiti come una limitazione, ma solo come una concessione dello Stato. L'assenza di un processo costituente dello Stato italiano si accompagna alla mancanza di grandi battaglie e di impegnative affermazioni intorno alle libertà fondamentali e ai diritti dell'uomo. I giuristi italiani condividevano con la scienza germanica anche l'avversione al diritto naturale, e quindi alle dichiarazioni dei diritti.[18]

Una critica radicale a questa traduzione italiana del modello germanico di Rechtstaat fu immediatamente espressa dagli economisti di tendenza liberista sul piano della teoria e della politica economica. Antonio De Viti De Marco e Vilfredo Pareto giudicarono questa teoria dello Stato di diritto una dottrina autoritaria dello Stato, che comprimeva le istanze di libertà e sottometteva l'ordinamento sociale agli interessi più fortemente costituiti, al fine del potenziamento dello Stato e della massima diffusione dello statalismo. A questa prospettiva De Viti De Marco, anche ricorrendo a costituzionalisti liberali inglesi come Albert V. Dicey, opponeva un modello differente di Stato democratico e garantista, fondato sul suffragio allargato anche alle donne e sulla diffusione dei controlli dal basso.[19]

Lo Stato liberale stenta ad uscire dai suoi confini di classe. Così, dopo aver limitato gli spazi per i diritti di libertà, lascia ad altre forze sociali e politiche – classi popolari, socialisti, cattolici – il compito di far procedere il paese sulla strada della nazionalizzazione della politica. Non sarà per caso che i primi partiti in Italia saranno quelli antiistituzionali: il partito socialista nel 1892, il partito repubblicano nel 1894.

Nel primo Novecento lo Stato liberale sarà sottoposto alla duplice pressione del moltiplicarsi delle figure e degli interessi sociali e del crescere delle funzioni amministrative. I processi di industrializzazione e di socializzazione spingeranno verso un riassetto di tipo organicistico della società, aldilà dell'individualismo borghese dell'età liberale.[20] La separazione tradizionale tra Stato e società sarà superata dalla compenetrazione nello Stato di una rappresentanza degli interessi delle diverse forze sociali in movimento:  operai, contadini, ceti medi urbani e agrari. Economia e società premono sulle forme di un assetto istituzionale e politico sempre meno capace di fornire risposte a domande sempre più complesse.[21]

Sul versante della teoria e del riassetto dei poteri costituzionali avanza il modello dello Stato amministrativo. La riaffermazione della sovranità dello Stato come amministrazione persegue due obbiettivi. E' una risposta aggiornata alla crisi di autorità dello Stato liberale rispetto al dilagare dei conflitti sociali e politici e agli effetti disgreganti prodotti dal diffondersi degli interessi di parti, gruppi, individui. Serve quindi sia ad evitare la prevalenza delle pressioni e delle logiche dei gruppi economici, sia  a limitare  i poteri delle assemblee rappresentative e dei gruppi politici espressi dall'espansione della democrazia.[22]

Le trasformazioni sociali ed economiche accelerate dalla guerra mondiale e il processo di democratizzazione - allargato dal suffragio universale maschile, dall'introduzione del sistema proporzionale e dall'espansione dei partiti di massa  (col nuovo partito popolare, anch'esso antistituzionale) – accentueranno la crisi del sistema politico liberale. La prospettiva, individuata per primo da Costantino Mortati, sarebbe stata la ristrutturazione del modello costituzionale, con l'attribuzione del potere di indirizzo politico al Parlamento riorganizzato sulla base dei partiti politici.[23]

Del resto in diversi paesi europei, nel primo dopoguerra, si affermerà la tendenza verso la costituzione della nuova forma di Stato dei partiti (Parteienstaat), segnando il passaggio dal parlamentarismo liberale alla democrazia basata sui partiti di massa, in una visione pluralistica dello Stato, fondata sull'equilibrio dei poteri.[24]

L'introduzione del sistema proporzionale nel 1919 e la costituzione dei gruppi parlamentari alla Camera nel 1920 ponevano, per la prima volta in Italia, i partiti di massa al centro dell'attività parlamentare e nei confronti del governo. Gli aspri conflitti sociali e politici e la costitutiva estraneità tra istituzioni liberali e partiti impediranno il passaggio dal parlamentarismo liberale alla "democrazia dei partiti". Lo Stato liberale  non cadeva per la disgregazione indotta dai partiti, ma perché incapace di ristrutturare il modello costituzionale sulla base dei partiti politici.

Sul terreno più propriamente politico e sociale le furiose lotte scatenate nel primo dopoguerra italiano si incroceranno con il prevalere della prospettiva dei "blocchi nazionali" – di conservatori, liberali e fascisti – che individueranno nei partiti di massa il nemico da abbattere e riproporrano l'identificazione di una parte politica con la nazione e lo Stato.[25]

Il ruolo dei partiti sarà di nuovo ridimensionato, nella prospettiva di una restaurazione della sovranità statale in nome di un superiore interesse nazionale. La novità sarà costituita dalla identificazione dello Stato nazionale con un partito, il Partito nazionale fascista, che si proporrà anche di integrare nello Stato la società in modo totalitario, ma con scarsi risultati.

 

Francesco Barbagallo

Ordinario di Storia Contemporanea all'Università di Napoli

Diretto della rivista Studi storici

 

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[1] G. Galasso, L'Italia come problema storiografico, Introduzione a Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, UTET, Torino 1979, pp. 163 ss.

[2] G. Candeloro, L'unificazione italiana, in La Storia, diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. VIII, L'Età contemporanea, tomo 3, UTET, Torino 1986, pp. 350 ss.; M. Meriggi, L'unificazione nazionale in Italia e in Germania, in AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997, pp. 129 ss.

[3]  A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Einaudi, Torino 1959; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica  da Rattazzi a Ricasoli, 1859-1866, Giuffrè, Milano 1964; E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Laterza, Bari 1967; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano 1968.

 

[4] T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1979; R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, il Mulino, Bologna 1988; G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno, vol. XII, Edizioni del Sole, Napoli 1991, pp. 19-90; F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Einaudi, Torino 1994, pp. 3-34.

[5] P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffré, Milano 1986.

[6] S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, il Mulino, Bologna 1982.

[7] W. J. Mommsen, Società e politica nell'età liberale. Europa 1870-1890, in La trasformazione politica dell'Europa liberale 1870-1890, a c. di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 1986, pp. 15 ss.

[8][8] E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1870. Programma, mito, realtà, Einaudi, Torino 1991.

[9] K. W. Deutsch, Nationalism and Social Communication, The MIT Press, cambridge (MA) 1962; E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985; Id., Il mito della nazione e quello delle classi, in Storia d'Europa, vol. I, L'Europa oggi, a c. di P. Anderson, M. Aymard, P. Bairoch, W. Barberis, C. Ginzburg, Einaudi, Torino 1993, pp. 637 ss.

[10] A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, il Mulino, Bologna 1992.

[11] B. Tobia, Una cultura per la nuova Italia, in Storia d'Italia, 2. Il nuovo Stato e la società civile 1861-1887, a c. di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp.427 ss.

[12] G. Galasso, Storia d'Europa, vol. III, Età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 123 ss.; G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), il Mulino, Bologna 1975; Id., L'uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1982.

[13] U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, il Mulino, Bologna 1989.

[14] G. Cianferotti, Il pensiero di V. E. Orlando ela giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffré, Milano 1980.

[15]  M. Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Stato e cultura giuridica in Italia dall'unità alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 3 ss.

[16]  U. Allegretti, op. cit., p. 265.

[17]  F. Rugge, Autonomia ed autarchia degli enti locali: all'origine dello Stato amministrativo, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in italia fra Otto e Novecento, a c. di A. Mazzacane, Liguori, Napoli 1986, pp. 275 ss.

[18]  G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino 1992.

[19] A. Cardini, Gli economisti, i giuristi e il dibattito sullo Stato dopo il 1880, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, cit., pp. 175 ss.

[20] R. Ruffilli,  Santi Romano e la crisi dello Stato agli inizi dell'età contemporanea (1977), in Id., Istituzioni, società, Stato, vol. II, a c. di M.S. Piretti, il Mulino, Bologna 1990, pp. 163 ss.

[21] S. Cassese, Giolittismo e burocrazia nella "cultura delle riviste", in Storia d'Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, a c. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1981, pp. 475 ss.

[22] C. S. Maier, "Vincoli fittizi... della ricchezza e del diritto": teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, in L'organizzazione degli interessi nell'Europa occidentale, a c. di S. Berger, il Mulino, Bologna 1983, pp. 47 ss.; M. Fioravanti, Stato di diritto e stato amministrativo nell'opera giuridica di Santi Romano, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, cit., pp. 318 ss.

[23] C. Mortati, L'ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Anonima editoriale, Roma 1931.

[24] G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia (1929), a c. di S. Forti, Giuffrè, Milano 1989.

[25] S. Neri Serneri, Classe, partito, nazione. Alle origini della democrazia italiana 1918-1948, Lacaita, Manduria 1995, pp. 87 ss.

lunedì 3 gennaio 2011

Antropologia del Cavaliere

Implacabili, si sono via via accumulati nel tempo (si approssima il ventennio) i materiali che ora ci presentano a tutto tondo la figura di chi ha dato il tono a questa fase: Silvio Berlusconi.

Con una sorta di irresistibile perentorietà sono sempre più manifesti i tratti di una personalità in qualche modo emblematica di come oggi ci si possa affacciare sulla scena pubblica, conquistarla, segnarne i caratteri. Nasce da qui una nuova antropologia, che non è soltanto la somma e l'esibizione di antichi vizi italiani. Ma è anche l'effetto di un loro impastarsi con la post-modernità del sistema mediatico, con la cancellazione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, con la personalizzazione estrema della politica.

Una volta di più, l'Italia come inquietante laboratorio, luogo di anticipazione e sperimentazione di modelli? È già avvenuto con Mussolini, che aveva sedotto anche le opinioni pubbliche di paesi democratici con la sua grinta. Oggi quelle opinioni pubbliche assistono sbigottite e, ahimè, divertite alla via italiana al "buon governo".

Aveva ragione il vecchio Marx quando diceva che i fatti e i personaggi della storia «si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Solo che si tratta di una farsa che ci attira il dileggio degli stranieri, e fa ridere ben poco gli italiani.

E quelle parole, ricordiamolo, erano poste quasi in epigrafe di quel classico delle disavventure della democrazia che è "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte", l'altro Bonaparte, non quel Napoleone al quale Berlusconi ebbe l'ardire di paragonarsi, annunciando per sé un luminoso futuro da legislatore. Qui l'antropologia si tinge di megalomania, quella delle autorappresentazioni come salvatore del mondo, come consigliere indispensabile d'ogni capo di stato o di governo nel quale abbia la ventura d'imbattersi.

Chi incitava a cogliere nel berlusconismo i tratti dell'innovazione, oggi dovrebbe riflettere non tanto sulle modernizzazioni autoritarie del secolo passato, ma piuttosto sul modo di questa nuovissima modernizzazione all'italiana.

Senza dubbio Berlusconi seppe cogliere la Repubblica nel momento della sua massima crisi e si pose come "federatore" delle forze che potevano opporsi al centro sinistra. Ma, indubbio maestro nelle campagne elettorali, non è stato capace di trasformarsi in uomo di governo. Sì che oggi non solo la sua federazione si sbriciola, ma si ritrova con Fini come avversario e Bossi come padrone. Il fedele Fedele Confalonieri ne invoca ora costumi morigerati e lo incita a tornare alle origini. Impresa impossibile, perché proprio l'intreccio di troppi vizi privati e di nessuna virtù pubblica è all'origine della sua fortuna.

Così, le due "modernizzazioni", quella craxiana e quella berlusconiana sembrano avere lo stesso esito - una eredità di macerie. Ma se vittima di Craxi fu solo il Partito socialista, oggi rischia d'esserlo la stessa democrazia italiana. In realtà, Berlusconi ha portato a compimento quella mutazione genetica intravista da Enrico Berlinguer al tempo del craxismo trionfante, e che ora s'incarna in una nuova prepotente antropologia che tende a trasfondere una autobiografia personale nell'autobiografia di una nazione.

Se non ha governato, certamente Berlusconi ha trasformato il paese. Lo ha fatto con l'uso delle sue televisioni che facevano intenzionalmente regredire i telespettatori a fanciulli incolti; che li degradavano non a consumatori, ma a "consumati" dalla pubblicità (come scrive Benjamin Barber); che li consegnavano ad una informazione manipolata.

Quando è "sceso in campo", aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo berlusconiano: l'appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere "sì" a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a "carne da sondaggio"; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi.

Non l'"amore per le donne", ma le donne come suo personalissimo "logo".

Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola, di sottoporsi a qualche controllo. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano, fedeli o traditori. Della stessa verità, che modifica a suo piacimento. Il senso dello Stato democratico è perduto, al suo posto troviamo lo Stato patrimoniale dove le risorse pubbliche sono nella piena disponibilità del sovrano.

Uno Stato personale, dove vige la volontà del principe sciolto dalle leggi. E qui si coglie un altro tratto originario di questa antropologia. Quella dell'imprenditore, per il quale la democrazia si arresta ai cancelli della fabbrica. Quella del capo azienda, che seleziona le segretarie "di bella presenza". Il caso Ruby è la sintesi, l'epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo.

Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d'ogni regola. Si manifesta come rappresentante di una borghesia compra dora, che ritiene di potersi impadronire di tutto ciò che è alla sua portata.

È qui la ragione del suo successo, la nuova antropologia dell'italiano che non trova riscontro nelle descrizioni di Giulio Bollati o nell'antitaliano di Giuseppe Prezzolini? Ma si fa pure strada la consapevolezza che un limite sia stato varcato, che non si possa più accettare ogni prepotenza.

Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy (non mi pare sia stato ricordato il presidente della Repubblica francese Félix Faure, morto in un salone dell'Eliseo vittima delle cure di una antesignana di Monica Lewinski: lo aggiungo io, a buon peso).

Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa.

E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un "riscatto".

 

Stefano Rodotà

da La Repubblica

domenica 2 gennaio 2011

La legge di Bertoldo

Conta due secoli la storia delle costituzioni scritte. Riassumiamola: monarchie assolute sradicano gli antagonisti interni sviluppando apparati e tecnologie moderni; culture del diritto naturale e illuministi riformatori postulano una razionalità immanente; metamorfosi traumatiche impongono un codice genetico. Supernorme fissano le procedure del lavoro legislativo, altre regolano i contenuti. Leggi formalmente perfette nascono morte quando divergano dai parametri.

L'art. 3 Cost. ne detta uno capitale presupponendo cittadini giuridicamente eguali: «davanti alla legge» il vagabondo irsuto è pari al plutocrate talmente ricco da comprarsi castelli, palazzi, ville, corpi umani, maschere, lanterne magiche. La regola non ammette revisioni (art. 138): ad esempio, Camere servili ritoccano l'art. 3, stabilendo che Dominus e famigli stiano fuori del comune spazio normativo, intoccabili; mossa invalida nell'attuale sistema; i «revisori», infatti, vogliono affossarlo e vi riescono quando i sudditi pieghino la testa, eventualità nient'affatto improbabile nelle società diseducate al pensiero; chi comanda i piccoli schermi trascina masse stupefatte.

In formula ipocrita i due articoli della l. 7 aprile 2010 n. 51 creano exceptae personae, più forti della legge.

Vediamole.

L'art. 420-ter c. p. p. prevede il rinvio dell'udienza quando l'imputato non possa assistervi: deve trattarsi d'«assoluta impossibilità», da «caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento»; se ricorra tale ipotesi, lo stabilisce una decisione sindacabile; l'offesa al contraddittorio invalida i processi. Qualora l'imputato fosse presidente del consiglio (o ministro), era ovvio che entro dati limiti l'impegno governativo costituisse legittimo impedimento; basta intendersi sui tempi; indichi i giorni disponibili e tra persone serie tutto avviene de plano. Siccome gli uomini non sono angeli, c'era il rischio della soperchieria: guadagna settimane e mesi; finalmente viene, salvo interrompere l'azione scenica, chiamato altrove, né consente al sèguito, dove sarebbe rappresentato dai difensori; vuol occuparsene personalmente; il premier ha meno diritti del cittadino qualunque?; e sbandiera gli articoli de quibus.

Il nuovo testo taglia corto a profitto dei perditempo, configurando un ostacolo permanente e insindacabile. Monsieur N, in fuga dal processo, risulta padrone del gioco, tanti sono gli asseribili impedimenti: ne evoca quanti vuole, dalla «politica generale» agli affari dei singoli dicasteri (art. 95 Cost.), né teme smentite; l'elenco nell'art. 1, comma 1, è fumo negli occhi, non essendo enumerabili in forma tassativa gl'incombenti; l'ultima frase allarga ancora le maglie mettendo nel conto prius e posterius, nonché «ogni attività» in qualunque modo «coessenziale» (aggettivo fumoso). Rinvio automatico, visto che il giudice non ha alternative: contestando i motivi addotti s'ingolfa avventurosamente; se procede, semina nullità.

Il comma 3 gli sottrae la cognizione dei fatti: ogniqualvolta il signore dell'esecutivo dica «non posso», l'evento processuale sfuma; può anche permettersi lo scherno raccontando che lui spende ogni ora libera, diurna o notturna, nel pensatoio elucubrante salutari riforme; è «attività preparatoria», no? Nel comma 4 siamo al clou: se afferma che l'impedimento duri fino alla data x (impregiudicati gli eventuali futuri), l'udienza va fissata oltre tale termine, col limite d'un semestre; e così, ripetuto due volte, il trucco porta via 18 mesi; entro i quali l'art. 2 pronostica l'immunità stabilita con legge costituzionale, altrimenti lo scudo temporaneo sarebbe prorogato; Camere docili votano sul tamburo una lexiuncula.

Insomma, finché presieda il Consiglio, durasse anche trenta o quarant'anni in sella, Monsieur N, affetto da fobia giudiziaria, schiva i tribunali opponendo l'impedimento ogni sei mesi.

Il precedente fiabesco è Bertoldo condannato a morte mediante impiccagione, con una clausola: scelga l'albero a cui sarà appeso; pronto a servirli, appena trovi l'idoneo; non ne vede.

L'ostacolo al processo diventa impunità. La stasi sine die equivale a riscrivere l'art. 3 Cost., come nell'orwelliana Fattoria degli animali: espulso mister Jones, i maiali vittoriosi elaborano una Carta (art. 7, «all animal are equal»); passando gli anni, s'evolvono; ormai camminano su due gambe.

Voltaire corrodeva gl'idoli con battute esilaranti. L'art. 2, comma 1, spiega dove miri questo capolavoro: garantisce al beneficiario un «sereno svolgimento» delle funzioni governative; dunque, non manca il tempo da spendere in curia; ne troverebbe anche Napoleone. I motivi della fuga stanno nell'interno d'anima: maledetta Dike, gli sta alle calcagna; la possibile condanna è un incubo.

Cattivo segno, obietta lo spettatore ancora sofferente d'antiquati moralismi. No, replicano: innocente o colpevole, ha bisogno d'uno scudo e tutti vi siamo interessati; la sua quiete psichica è risorsa inestimabile. Era una fantasia primitiva che gli equilibri naturali influenti sulla tribù abbiano l'epicentro nel corpo del re: lui «sereno», il regno fiorisce; ogni disturbo scatena effetti calamitosi. Ergo, l'interesse tutelato dalla l. 7 aprile 2010 prevale sulla miserabile routine giudiziaria.

Gli ascoltatori seri ridono, d'una ilarità malinconica perché corrono tempi tristi quando masnade parlamentari legiferano così. 

 

Franco Cordero 

[professore emerito di Procedura penale all'Università di Roma – La Sapienza]

 

da La Repubblica