giovedì 27 ottobre 2011

Quando lo stipendio dei deputati era misurato sulla paga degli operai

di Raniero La Valle (*)

 

Lo racconta La Valle in "Quel nostro Novecento": l'onestà dei padri costituenti si trasforma nell'invito a ripensare i privilegi dei politici oggi in parlamento. Storie di uomini e donne che programmavano la democrazia nella quasi povertà: Dossetti, La Pira, Lazzati. Protagonista del capitolo che anticipiamo (libro in uscita per la casa editrice Ponte alle Grazie) è una donna straordinaria: Teresa Mattei. Disobbedì a Togliatti e rifiutò di abortire affrontando lo "scandalo" di deputata ragazza-madre che il suo Pci voleva nascondere. E la buttarono fuori

 

Ho conosciuto Teresa Mattei e ho fatto un comizio con lei a Pisa nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del giugno 2006, quando la destra berlusconiana voleva far scempio della Costituzione e non vi riuscì. Teresa Mattei aveva già 85 anni, ma la Costituzione la voleva difendere, perché ne era madre; era stata a 24 anni deputata comunista alla Costituente, una delle ventuno donne sui 556 deputati che avevano fatto parte di quell'assemblea.

Era la più giovane di tutti, e per questo Vittorio Emanuele Orlando che, essendo invece il più anziano, aprì la prima seduta del 25 giugno 1946 ("L'Italia non ha ancora finito di essere l'Italia – disse – e come italiani noi abbiamo ancora qualche compito assegnato a noi nella storia del mondo") la chiamò a salire sugli scranni alti come segretaria di Presidenza. In questa veste, con una delegazione dell'Assemblea, il 27 dicembre 1947 presentò al Capo provvisorio dello Stato il testo della Costituzione da firmare: "una ragazzina – come ricorda – che per la foto con De Nicola alla consegna della Costituzione aveva addosso il vestito di sua madre e le scarpe scalcagnate".

I deputati alla Costituente, nell'Italia povera del dopoguerra, erano infatti poveri; per questo ad esempio – e fu una benedizione – i cosiddetti "professorini" – Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira – non potendo permettersi altro, andarono a vivere tutti insieme nella casa delle signorine Portoghesi in via della Chiesa Nuova 14, formando quel singolare sodalizio che si chiamò poi, per celia, "comunità del Porcellino". Che restassero poveri, ci aveva pensato la stessa Teresa Mattei, perché come segretaria della Presidenza fu tra quelli che dovevano stabilire i criteri per lo stipendio dei costituenti. Insieme con Giuseppe Di Vittorio andò allora su una vecchia macchina della CGIL in giro per fabbriche ed uffici per vedere quale fosse il salario medio degli operai e degli impiegati di allora, e propose che per non allontanarsene l'indennità parlamentare fosse di 42.000 lire al mese. Questa proposta non fu molto popolare tra gli onorevoli e alla fine – ma con non minore sobrietà – il salario dei deputati fu fissato a 80.000 lire. Se la Costituzione rassomigliava all'Italia e ancora oggi è "la più bella del mondo", è anche perché è stata fatta da poveri che stavano dalla parte dei poveri.

Nella Costituzione i poveri non dovevano essere un'astrazione, ma dovevano essere considerati nella loro condizione reale, perché anche loro avessero il diritto a perseguire la felicità, come era stato scritto, quasi due secoli prima, nella Dichiarazione di indipendenza americana: il diritto di cercare la felicità, non di ottenerla, perché questo nessuna Costituzione lo può dare. La Costituzione però può stabilire che la politica debba renderne possibili le condizioni; e così faceva l'articolo 3 del progetto di Costituzione, che nella proposta formulata dalla Commissione dei 75 all'Aula, diceva che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana".

Nell'eguaglianza, c'era anche quella delle donne; e a Teresa Mattei parve che questa formulazione non fosse abbastanza esigente, di fronte alle mille forme di discriminazione, anche mascherate, a cui le donne erano sottoposte (come ad esempio quella delle crocerossine o delle infermiere di Careggi a cui non era permesso sposarsi); intervenendo in aula il 18 marzo 1947 chiese perciò che si aggiungesse "di fatto" dopo il verbo "limitano" ripristinando una formula del resto già approvata, su suggerimento di Togliatti, dalla Prima Sottocommissione, ma poi caduta nel testo definitivo proposto dai Settantacinque. E così restò stabilito che gli ostacoli d'ordine economico e sociale da rimuovere sono quelli che "limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".

Questa concretezza veniva a Teresa Mattei certamente dall'essere donna, ma anche dall'essere stata partigiana. Alla Resistenza giunse, a 22 anni, dal Fronte della Gioventù della facoltà di lettere dell'università di Firenze, come racconta Patrizia Pacini in una tesi su di lei patrocinata dalla Regione toscana. Teresa non si limitò a fare da staffetta, come molte donne partigiane, ma partecipò ad azioni di guerra, diede informazioni per l'attentato a Gentile, fu arrestata e stuprata dai tedeschi, partecipò alla liberazione di Firenze. Il fratello maggiore, Gianfranco, docente al Politecnico di Milano, combattendo con i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) a Roma, nel febbraio del 44 fu preso dai tedeschi e torturato in via Tasso; temendo di cedere alle torture e di rivelare il nome dei compagni, si tolse la vita; solo dopo 18 mesi i genitori riuscirono a trovarne il corpo, sepolto come "sconosciuto" in una fossa del cimitero di Prima Porta.

Il 3 giugno dello stesso anno Teresa, insieme a un altro gappista di Firenze che vi perse la vita, fece saltare un treno di munizioni che i tedeschi avevano parcheggiato in un tunnel presso Pontassieve. In bicicletta riuscì a fuggire dopo l'attentato e si rifugiò all'Università dove Eugenio Garin, con cui stava preparando la tesi, era riunito con alcuni docenti; gli disse che era inseguita dai tedeschi e quando questi arrivarono, Garin finse che la ragazza stesse sostenendo l'esame di laurea e che da tempo fosse lì; e poiché con i professori presenti improvvisò una commissione di laurea, Teresa Mattei quel giorno si laureò davvero, in filosofia.

L'apporto delle donne alla Resistenza è stato molto rilevante. Trentacinquemila furono le donne partigiane, mentre 70.000 fecero parte dei Gruppi di difesa della donna; 4.653 furono arrestate e torturate, 2.750 deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento, su un totale di oltre quarantamila partigiani uccisi.

Luciano Lama, ricordando il giorno in cui avevano fucilato suo fratello, disse: "La Resistenza fu una battaglia terribile, disperata e atroce. Vivevamo nascosti nelle buche dei campi di granturco, eravamo circondati da nemici: non erano solo tedeschi e fascisti, c'erano le spie, ti potevano tradire in ogni momento. Vedevamo sparire i nostri compagni, fucilavano famiglie intere. Eravamo sopraffatti dal dolore, dalla rabbia…Altrimenti non avremmo potuto…" Quanto alle donne, a resistere non furono solo le partigiane. Ha detto Teresa Mattei che "la fedeltà istintiva che hanno avuto tutte le donne, era la Resistenza"; e tutte furono partigiane "per aver diviso a metà una patata con chi aveva fame, aver svuotato gli armadi per vestire i disertori, aver rischiato la vita tenendo in soffitta profughi o ebrei. Era quella la vera Resistenza. Io ho combattuto, ma certo non mi divertivo a far saltare i treni o altre cose. La violenza dei tedeschi l'ho pagata sulla mia pelle di donna".

Fu così che le donne si guadagnarono il suffragio universale, votarono nel 1946 per la Costituente, e divennero cittadine a pieno titolo. Teresa Mattei le rappresentò dal 1946 al 1948, per l'8 marzo si inventò la mimosa, che era un fiore povero e molto diffuso nelle campagne, si impegnò per la cultura nel popolo, ma non si ripresentò per le elezioni del 18 aprile del '48. La sua vita politica fu un segno di contraddizione; il primo scontro con Togliatti era stato perché non voleva votare l'art. 7 che dava riconoscimento costituzionale ai Patti Lateranensi; tuttavia fu proprio lei, come segretaria della Presidenza, che dovette fare la chiama per il voto palese ad appello nominale che Togliatti aveva voluto per assicurarsi che tutti i comunisti votassero sì (solo Concetto Marchesi, Teresa Noce e Giuseppe di Vittorio si sottrassero, con l'assenza, a quel voto).

Ma nel 48 il contrasto fu più aspro. Da Bruno Sanguinetti, con cui aveva lottato nella Resistenza, Teresa aspettava un figlio; ma il compagno era sposato, il divorzio non c'era, e perciò i due non si potevano unire in matrimonio. Per il Partito comunista, che era assai moralista, era uno scandalo che una deputata-simbolo, come era Teresa Mattei, diventasse una ragazza-madre. Ma la Resistenza era stata, come scrisse Arturo Carlo Iemolo, "un roveto ardente" e aveva cambiato molti destini. Inutilmente Teresa disse che le ragazze madri non erano rappresentate in Parlamento, e così sarebbe stata lei a farlo; Togliatti non volle sentire ragioni, e pretendeva che Teresa abortisse. Ma anche allora, come aveva fatto tante volte, Teresa resistette, e il figlio lo ebbe; però con il PCI i rapporti si guastarono, lei ne criticò sempre più lo stalinismo, e il 23 aprile del 1955 fu radiata dal partito.

Teresa Mattei continuò la sua politica con le donne, e volse tutta la sua attenzione ai bambini: promosse il cinema fatto dai bambini, ideò Radio bambina e fondò la Lega per il diritto dei bambini alla comunicazione; studiò Piaget e altri grandi pedagogisti moderni, frequentò Illich e Munari e con il giurista prof. Pizzorusso progettò di far inserire nell'art. 3 della Costituzione, quello dell'eguaglianza, la precisazione che la "pari dignità" non sopporta nemmeno distinzioni di età: è dalla nascita che si diviene cittadini, e anche per i neonati vale l'art. 1 per il quale "la sovranità appartiene al popolo". Convinta che nei bambini c'è già tutto, e che in loro il sogno e l'ideale sono sempre presenti come possibilità concreta, si inventò il Premio "Bambino Permanente", da assegnare agli adulti che erano riusciti a essere come bambini, senza immaginare che si trattasse di una categoria evangelica; il primo che ne fu insignito fu Cesare Zavattini, poi lo ebbero Sandro Pertini, Gorbaciov, Tiziano Terzani, Rita Levi Montalcini, Natalia Ginzburg, Armand Hammer, Alexander Dubcek, Danilo Dolci, Bruno Munari e Marcello Piccardo.

 

(*) Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni, L'Avvenire d'Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas ("Marianela e i suoi fratelli"), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma della legge sull'obiezione di coscienza. Altri libri "Dalla parte di Abele", "Pacem in Terris, l'enciclica della liberazione", "Prima che l'amore finisca", "Agonia e vocazione dell'Occidente". Nel 2008 ha pubblicato "Se questo è un Dio". Promotore del "Manifesto per la sinistra cristiana" nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del '48 e la critica della democrazia maggioritaria.


venerdì 14 ottobre 2011

L’Europa e la crisi dei debiti sovrani

di Vincenzo Visco
La storia delle (grandi) crisi finanziarie ci insegna che esse sono
tutte caratterizzate da una sequenza di eventi molto simile: hanno
inizio con un crollo dei valori (gonfiati) in qualche segmento del
mercato finanziario; la caduta si estende rapidamente all'intero
mercato; in conseguenza le banche si vengono  a trovare in condizioni
di illiquidità e talvolta di insolvenza ( e possono fallire); le
difficoltà delle banche si traducono in una inevitabile restrizione
creditizia (credit crunch) e quindi in una crisi dell'economia reale,
della produzione e della occupazione; cala il Pil, falliscono le
imprese, crollano  i consumi, aumenta la disoccupazione, l'economia
entra in recessione, e si avvia verso la depressione. Le crisi
finanziarie, inoltre, provocano un forte impatto negativo sui bilanci
pubblici degli Stati in quanto la recessione fa cadere il gettito
fiscale, mentre i meccanismi di sostegno della (crescente)
disoccupazione fanno lievitare la spesa pubblica. A ciò si sono
aggiunti nell'ultima crisi, sia robusti interventi di sostegno
congiunturale  diversamente da quanto accadde nel 1929), sia la
decisione (corretta) di non fare fallire le banche, e quindi di
trasformare consapevolmente ed esplicitamente debiti privati in debito
pubblico (nota 1).

In conseguenza la crisi si trasferisce dal settore privato a quello
pubblico fino a determinare l'insolvenza, il default degli Stati.
Tradizionalmente i default successivi a una grande crisi finanziaria
hanno riguardato soprattutto Paesi in deficit nei conti con l'estero
in seguito alla crisi delle bilance dei pagamenti , ma nella crisi
attuale il rischio di insolvenza si è manifestato anche a causa del
lievitare dei disavanzi fiscali dei bilanci pubblici.

In altre parole ciò che sta succedendo oggi nel mondo è tutt'altro che
inusuale, ed era ampiamente prevedibile data l'ampiezza e la portata
della crisi; il problema è dato dall'eccesso di debiti (privati e
pubblici) che in qualche modo devono essere smaltiti, il che pone la
questione della ripartizione dei costi dell'aggiustamento che comunque
è necessario per consentire una ripresa. Non è un caso che le crisi
siano accompagnate inevitabilmente da conflitti sociali, politici, tra
Stati, e talvolta da guerre.

È per questi motivi che oltre un anno fa prospettai una possibile
soluzione al problema dell'eccesso di debito pubblico generato dalla
crisi, valida nella ipotesi (del tutto irrealistica) che la
consapevolezza dei problemi qui illustrati fosse adeguata, e che la
ragione potesse guidare le scelte economiche del mondo (nota 2).

In sostanza si trattava di collocare in uno speciale Fondo
l'incremento di debito dovuto alla crisi finanziaria finanziandolo con
i proventi di una imposta a ciò dedicata (che poteva essere una tassa
sulle transazioni finanziarie), isolando così l'extra-debito dai
bilanci degli Stati, e garantendo il suo smaltimento nel lungo periodo
senza interferenze con il funzionamento delle economie. Il Fondo
avrebbe potuto operare liberamente sul mercato e quindi produrre anche
profitti. Questa soluzione ove adottata sarebbe stata più utile di
quelle che tradizionalmente si producono dopo la crisi finanziaria per
smaltire i debiti: inflazione, consolidamenti, ripudi, defaults degli
Stati, repressione finanziaria, ecc. vale a dire la rappresentazione
cui stiamo oggi assistendo.

Lo stesso ragionamento, dall'economia globale poteva essere trasferito
su scala regionale (a livello europeo) e così la proposta si è
trasformata in quella di convertire in eurobonds l'eccesso di debito
dei Paesi europei (nota 3). Infine la proposta è stata semplificata
ulteriormente sottolineando che se una imposta sulle transazioni
finanziarie non fosse facilmente attuabile, o ponesse problemi dal
momento che il suo gettito non è distribuito in modo uniforme tra gli
Stati, sarebbe  sufficiente prevedere il finanziamento del servizio
degli eurobonds a carico dei singoli Stati in proporzione al debito
conferito nel Fondo mediante un esplicito ear-marking (destinazione
prioritaria) delle loro entrate di bilancio al servizio del debito
comune. Inoltre è possibile dimostrare che, dato il prevedibile costo
degli eurobonds (tasso di interesse), i risparmi determinati dalla
convergenza dei tassi sarebbero tali da consentire non solo il
riequilibrio delle finanze pubbliche degli Stati ma anche la
compensazione degli eventuali extra costi a carico dei Paesi virtuosi
da parte di quelli "viziosi" che trarrebbero il massimo vantaggio
dalla emissione degli eurobonds (nota 4). Da questo punto di vista non
mi sembra necessario prospettare forme di garanzia reale per il Fondo
che dovrebbe emettere gli eurobonds, come avviene nella proposta di
Prodi e Quadrio Curzio ( l'oro delle banche centrali); infatti il
servizio del nuovo debito europeo dovrebbe avvenire mediante un flusso
di esborsi correnti ( interessi, ecc.) e sarebbe comunque necessario (
e sufficiente) garantire tale flusso dalle entrate correnti dei
bilanci dei singoli Stati e/o da imposte a ciò dedicate e destinate (
come la FTT nella proposta Visco). Il passo logicamente e
temporalmente successivo dovrebbe essere, ovviamente, la previsione di
imposte (o comunque gettito) di pertinenza diretta dell'Unione, e
quindi l'inizio di una vera  e propria politica fiscale europea.

In materia di eurobonds sono state avanzate diverse ipotesi e proposte
(nota 5): da parte di Monti, Delpla e von Weisäcker, Juncker e
Tremonti, fino a Prodi e Quadrio Curzio. Tutte seguono lo stesso
schema: ipotizzano cioè che si possano emettere titoli di debito
europeo per un ammontare massimo pari al 60% del Pil dell'eurozona. La
proposta Visco invece ipotizza o che si trasformi in eurobonds solo la
parte corrispondente all'incremento del debito provocato dalla crisi,
o – viceversa - quella che eccede il 60% del Pil di ciascun Paese.
L'obiettivo della stabilità richiede infatti che i singoli Paesi
possano ripartire con nuove regole, nuovi controlli e adeguate riforme
dalla stessa condizione iniziale. Si eviterebbe così il rischio di un
trattamento pregiudizialmente diverso dei singoli Paesi da parte dei
mercati. Ciascun Paese dovrebbe finanziare dal proprio bilancio sia il
servizio degli eurobonds che quello relativo al debito domestico.

Né è difficile capire perché siamo arrivati alla situazione attuale.
Dopo la introduzione dell'euro, la convergenza dei tassi di interesse
e l'integrazione dei mercati finanziari fu immediata come si conviene
in condizioni di moneta unica, e tale situazione ha prevalso fino a
pochi mesi fa quando l'intero sistema della moneta unica è entrato in
crisi per ragioni evidenti: il rifiuto dell'Unione europea di gestire
insieme e collettivamente la crisi finanziaria e in particolare quella
delle banche considerandola questione nazionale da trattare a livello
di singolo Stato. È emersa così l'insufficienza tecnica e politica
della costruzione dell'euro: era quello invece il momento per
utilizzare l'emissione di eurobonds per ricapitalizzare congiuntamente
le banche europee e far fare un passo avanti al processo di
integrazione. La attuale crisi dell'euro è infatti poco giustificabile
da un punto di vista economico: la zona euro presenta livelli di
debito piuttosto ridotti (80-85%) rispetto a quelli degli USA, del
Giappone, del R.U e un equilibro nelle partire correnti e tuttavia è
stata più fortemente colpita dai mercati: se l'Europa avesse agito
come un unico soggetto economico tutto ciò non sarebbe accaduto. Il
possibile default di alcuni Paesi, Italia compresa, e la conseguente
possibile disintegrazione della zona euro sono il prodotto di errori,
miopie e nazionalismi riemergenti che richiamano alla memoria vicende
non dissimili verificatesi dopo la crisi del '29. Soprattutto in
Europa si è affermata nel dibattito politico corrente una singolare
inversione tra le cause e gli effetti della crisi. Mentre – come si è
detto – è del tutto ovvio e pacifico che i disavanzi e la crescita del
debito sono un effetto della crisi, in Europa si è teorizzato, e ci
stiamo comportando come se la crisi fosse l'effetto, e non la causa,
dei disavanzi di alcuni Paesi periferici, sicché sarebbe necessario
per risolvere i problemi europei, che questi Paesi, ai quali di è
aggiunta l'Italia, deflazionassero pesantemente la loro economia costi
quello che costi. È abbastanza ovvio che così facendo si peggiora la
situazione anziché risolverla, si creano risentimenti, paure e
sofferenze reali che potrebbero essere evitati.

Il problema rimane quindi quello della gestione dei debiti provocati
dalla crisi finanziaria: se si ritiene che debbano essere ripianati
all'interno dei bilanci di ciascun Paese, non rimane che procedere
come stiamo facendo e ipotecare 10-20 anni delle nostre vite
dedicandole a questo compito. Se viceversa si prende atto della realtà
(anche storica (nota 6)) e si cercano sistemi cooperativi e meccanismi
e strumenti finanziari idonei a gestire la crisi, (come sono anche gli
eurobonds) è possibile riprendere una fase di sviluppo più ordinata di
quella che si è risolta nella catastrofe del 2007-09. Ma per fare ciò
sarebbero necessarie leadership politiche molto forti, consapevoli e
autorevoli.

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1) Naturalmente non era necessario salvare, oltre alle banche, anche i
proprietari delle banche. Sarebbe stato invece opportuno
nazionalizzarle, sostituire il management e trasformare gli
obbligazionisti in azionisti in modo da costringere anche loro a farsi
carico dei costi della crisi. Le banche così risanate potevano
successivamente essere riprivatizzate. Non aver seguito questa
strategia che pure era stata prospettata (persino in maniera
bipartisan), è stato il principale errore che può essere imputato al
Presidente Obama. Più probabilmente, però, tale comportamento riflette
l'influenza (nefasta) del finanziamento privato della politica negli
S.U., e cioè la crisi della democrazia americana.
2) Lo stesso problema era stato sollevato da Paolo Savona più o meno
contemporaneamente in alcuni articoli comparsi sul Messaggero.
3) V. Visco: Innovative Financing at a Global and European Level,
Audizione la Parlamento Europeo 10 gennaio 2011.
4) V. Visco Il Sole 24Ore 16 luglio 2011
5) Il fatto che l'emissione di eurobonds possa in teoria e in pratica,
essere utilizzata per finanziare infrastrutture e programmi di
investimento, o per "europeizzare" parte del debito dei Paesi della
zona euro è ovviamente del tutto irrilevante.
6) Reinhart e Rogoff hanno dimostrato come i grandi debiti derivati
dalle grandi crisi non sono mai stati ripagati interamente nella
storia del capitalismo. V. A. Decade of Debt NBER w.p. n. 16.827.