giovedì 27 ottobre 2011

Quando lo stipendio dei deputati era misurato sulla paga degli operai

di Raniero La Valle (*)

 

Lo racconta La Valle in "Quel nostro Novecento": l'onestà dei padri costituenti si trasforma nell'invito a ripensare i privilegi dei politici oggi in parlamento. Storie di uomini e donne che programmavano la democrazia nella quasi povertà: Dossetti, La Pira, Lazzati. Protagonista del capitolo che anticipiamo (libro in uscita per la casa editrice Ponte alle Grazie) è una donna straordinaria: Teresa Mattei. Disobbedì a Togliatti e rifiutò di abortire affrontando lo "scandalo" di deputata ragazza-madre che il suo Pci voleva nascondere. E la buttarono fuori

 

Ho conosciuto Teresa Mattei e ho fatto un comizio con lei a Pisa nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del giugno 2006, quando la destra berlusconiana voleva far scempio della Costituzione e non vi riuscì. Teresa Mattei aveva già 85 anni, ma la Costituzione la voleva difendere, perché ne era madre; era stata a 24 anni deputata comunista alla Costituente, una delle ventuno donne sui 556 deputati che avevano fatto parte di quell'assemblea.

Era la più giovane di tutti, e per questo Vittorio Emanuele Orlando che, essendo invece il più anziano, aprì la prima seduta del 25 giugno 1946 ("L'Italia non ha ancora finito di essere l'Italia – disse – e come italiani noi abbiamo ancora qualche compito assegnato a noi nella storia del mondo") la chiamò a salire sugli scranni alti come segretaria di Presidenza. In questa veste, con una delegazione dell'Assemblea, il 27 dicembre 1947 presentò al Capo provvisorio dello Stato il testo della Costituzione da firmare: "una ragazzina – come ricorda – che per la foto con De Nicola alla consegna della Costituzione aveva addosso il vestito di sua madre e le scarpe scalcagnate".

I deputati alla Costituente, nell'Italia povera del dopoguerra, erano infatti poveri; per questo ad esempio – e fu una benedizione – i cosiddetti "professorini" – Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira – non potendo permettersi altro, andarono a vivere tutti insieme nella casa delle signorine Portoghesi in via della Chiesa Nuova 14, formando quel singolare sodalizio che si chiamò poi, per celia, "comunità del Porcellino". Che restassero poveri, ci aveva pensato la stessa Teresa Mattei, perché come segretaria della Presidenza fu tra quelli che dovevano stabilire i criteri per lo stipendio dei costituenti. Insieme con Giuseppe Di Vittorio andò allora su una vecchia macchina della CGIL in giro per fabbriche ed uffici per vedere quale fosse il salario medio degli operai e degli impiegati di allora, e propose che per non allontanarsene l'indennità parlamentare fosse di 42.000 lire al mese. Questa proposta non fu molto popolare tra gli onorevoli e alla fine – ma con non minore sobrietà – il salario dei deputati fu fissato a 80.000 lire. Se la Costituzione rassomigliava all'Italia e ancora oggi è "la più bella del mondo", è anche perché è stata fatta da poveri che stavano dalla parte dei poveri.

Nella Costituzione i poveri non dovevano essere un'astrazione, ma dovevano essere considerati nella loro condizione reale, perché anche loro avessero il diritto a perseguire la felicità, come era stato scritto, quasi due secoli prima, nella Dichiarazione di indipendenza americana: il diritto di cercare la felicità, non di ottenerla, perché questo nessuna Costituzione lo può dare. La Costituzione però può stabilire che la politica debba renderne possibili le condizioni; e così faceva l'articolo 3 del progetto di Costituzione, che nella proposta formulata dalla Commissione dei 75 all'Aula, diceva che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana".

Nell'eguaglianza, c'era anche quella delle donne; e a Teresa Mattei parve che questa formulazione non fosse abbastanza esigente, di fronte alle mille forme di discriminazione, anche mascherate, a cui le donne erano sottoposte (come ad esempio quella delle crocerossine o delle infermiere di Careggi a cui non era permesso sposarsi); intervenendo in aula il 18 marzo 1947 chiese perciò che si aggiungesse "di fatto" dopo il verbo "limitano" ripristinando una formula del resto già approvata, su suggerimento di Togliatti, dalla Prima Sottocommissione, ma poi caduta nel testo definitivo proposto dai Settantacinque. E così restò stabilito che gli ostacoli d'ordine economico e sociale da rimuovere sono quelli che "limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".

Questa concretezza veniva a Teresa Mattei certamente dall'essere donna, ma anche dall'essere stata partigiana. Alla Resistenza giunse, a 22 anni, dal Fronte della Gioventù della facoltà di lettere dell'università di Firenze, come racconta Patrizia Pacini in una tesi su di lei patrocinata dalla Regione toscana. Teresa non si limitò a fare da staffetta, come molte donne partigiane, ma partecipò ad azioni di guerra, diede informazioni per l'attentato a Gentile, fu arrestata e stuprata dai tedeschi, partecipò alla liberazione di Firenze. Il fratello maggiore, Gianfranco, docente al Politecnico di Milano, combattendo con i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) a Roma, nel febbraio del 44 fu preso dai tedeschi e torturato in via Tasso; temendo di cedere alle torture e di rivelare il nome dei compagni, si tolse la vita; solo dopo 18 mesi i genitori riuscirono a trovarne il corpo, sepolto come "sconosciuto" in una fossa del cimitero di Prima Porta.

Il 3 giugno dello stesso anno Teresa, insieme a un altro gappista di Firenze che vi perse la vita, fece saltare un treno di munizioni che i tedeschi avevano parcheggiato in un tunnel presso Pontassieve. In bicicletta riuscì a fuggire dopo l'attentato e si rifugiò all'Università dove Eugenio Garin, con cui stava preparando la tesi, era riunito con alcuni docenti; gli disse che era inseguita dai tedeschi e quando questi arrivarono, Garin finse che la ragazza stesse sostenendo l'esame di laurea e che da tempo fosse lì; e poiché con i professori presenti improvvisò una commissione di laurea, Teresa Mattei quel giorno si laureò davvero, in filosofia.

L'apporto delle donne alla Resistenza è stato molto rilevante. Trentacinquemila furono le donne partigiane, mentre 70.000 fecero parte dei Gruppi di difesa della donna; 4.653 furono arrestate e torturate, 2.750 deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento, su un totale di oltre quarantamila partigiani uccisi.

Luciano Lama, ricordando il giorno in cui avevano fucilato suo fratello, disse: "La Resistenza fu una battaglia terribile, disperata e atroce. Vivevamo nascosti nelle buche dei campi di granturco, eravamo circondati da nemici: non erano solo tedeschi e fascisti, c'erano le spie, ti potevano tradire in ogni momento. Vedevamo sparire i nostri compagni, fucilavano famiglie intere. Eravamo sopraffatti dal dolore, dalla rabbia…Altrimenti non avremmo potuto…" Quanto alle donne, a resistere non furono solo le partigiane. Ha detto Teresa Mattei che "la fedeltà istintiva che hanno avuto tutte le donne, era la Resistenza"; e tutte furono partigiane "per aver diviso a metà una patata con chi aveva fame, aver svuotato gli armadi per vestire i disertori, aver rischiato la vita tenendo in soffitta profughi o ebrei. Era quella la vera Resistenza. Io ho combattuto, ma certo non mi divertivo a far saltare i treni o altre cose. La violenza dei tedeschi l'ho pagata sulla mia pelle di donna".

Fu così che le donne si guadagnarono il suffragio universale, votarono nel 1946 per la Costituente, e divennero cittadine a pieno titolo. Teresa Mattei le rappresentò dal 1946 al 1948, per l'8 marzo si inventò la mimosa, che era un fiore povero e molto diffuso nelle campagne, si impegnò per la cultura nel popolo, ma non si ripresentò per le elezioni del 18 aprile del '48. La sua vita politica fu un segno di contraddizione; il primo scontro con Togliatti era stato perché non voleva votare l'art. 7 che dava riconoscimento costituzionale ai Patti Lateranensi; tuttavia fu proprio lei, come segretaria della Presidenza, che dovette fare la chiama per il voto palese ad appello nominale che Togliatti aveva voluto per assicurarsi che tutti i comunisti votassero sì (solo Concetto Marchesi, Teresa Noce e Giuseppe di Vittorio si sottrassero, con l'assenza, a quel voto).

Ma nel 48 il contrasto fu più aspro. Da Bruno Sanguinetti, con cui aveva lottato nella Resistenza, Teresa aspettava un figlio; ma il compagno era sposato, il divorzio non c'era, e perciò i due non si potevano unire in matrimonio. Per il Partito comunista, che era assai moralista, era uno scandalo che una deputata-simbolo, come era Teresa Mattei, diventasse una ragazza-madre. Ma la Resistenza era stata, come scrisse Arturo Carlo Iemolo, "un roveto ardente" e aveva cambiato molti destini. Inutilmente Teresa disse che le ragazze madri non erano rappresentate in Parlamento, e così sarebbe stata lei a farlo; Togliatti non volle sentire ragioni, e pretendeva che Teresa abortisse. Ma anche allora, come aveva fatto tante volte, Teresa resistette, e il figlio lo ebbe; però con il PCI i rapporti si guastarono, lei ne criticò sempre più lo stalinismo, e il 23 aprile del 1955 fu radiata dal partito.

Teresa Mattei continuò la sua politica con le donne, e volse tutta la sua attenzione ai bambini: promosse il cinema fatto dai bambini, ideò Radio bambina e fondò la Lega per il diritto dei bambini alla comunicazione; studiò Piaget e altri grandi pedagogisti moderni, frequentò Illich e Munari e con il giurista prof. Pizzorusso progettò di far inserire nell'art. 3 della Costituzione, quello dell'eguaglianza, la precisazione che la "pari dignità" non sopporta nemmeno distinzioni di età: è dalla nascita che si diviene cittadini, e anche per i neonati vale l'art. 1 per il quale "la sovranità appartiene al popolo". Convinta che nei bambini c'è già tutto, e che in loro il sogno e l'ideale sono sempre presenti come possibilità concreta, si inventò il Premio "Bambino Permanente", da assegnare agli adulti che erano riusciti a essere come bambini, senza immaginare che si trattasse di una categoria evangelica; il primo che ne fu insignito fu Cesare Zavattini, poi lo ebbero Sandro Pertini, Gorbaciov, Tiziano Terzani, Rita Levi Montalcini, Natalia Ginzburg, Armand Hammer, Alexander Dubcek, Danilo Dolci, Bruno Munari e Marcello Piccardo.

 

(*) Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni, L'Avvenire d'Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro. La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas ("Marianela e i suoi fratelli"), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale. Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma della legge sull'obiezione di coscienza. Altri libri "Dalla parte di Abele", "Pacem in Terris, l'enciclica della liberazione", "Prima che l'amore finisca", "Agonia e vocazione dell'Occidente". Nel 2008 ha pubblicato "Se questo è un Dio". Promotore del "Manifesto per la sinistra cristiana" nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del '48 e la critica della democrazia maggioritaria.


venerdì 14 ottobre 2011

L’Europa e la crisi dei debiti sovrani

di Vincenzo Visco
La storia delle (grandi) crisi finanziarie ci insegna che esse sono
tutte caratterizzate da una sequenza di eventi molto simile: hanno
inizio con un crollo dei valori (gonfiati) in qualche segmento del
mercato finanziario; la caduta si estende rapidamente all'intero
mercato; in conseguenza le banche si vengono  a trovare in condizioni
di illiquidità e talvolta di insolvenza ( e possono fallire); le
difficoltà delle banche si traducono in una inevitabile restrizione
creditizia (credit crunch) e quindi in una crisi dell'economia reale,
della produzione e della occupazione; cala il Pil, falliscono le
imprese, crollano  i consumi, aumenta la disoccupazione, l'economia
entra in recessione, e si avvia verso la depressione. Le crisi
finanziarie, inoltre, provocano un forte impatto negativo sui bilanci
pubblici degli Stati in quanto la recessione fa cadere il gettito
fiscale, mentre i meccanismi di sostegno della (crescente)
disoccupazione fanno lievitare la spesa pubblica. A ciò si sono
aggiunti nell'ultima crisi, sia robusti interventi di sostegno
congiunturale  diversamente da quanto accadde nel 1929), sia la
decisione (corretta) di non fare fallire le banche, e quindi di
trasformare consapevolmente ed esplicitamente debiti privati in debito
pubblico (nota 1).

In conseguenza la crisi si trasferisce dal settore privato a quello
pubblico fino a determinare l'insolvenza, il default degli Stati.
Tradizionalmente i default successivi a una grande crisi finanziaria
hanno riguardato soprattutto Paesi in deficit nei conti con l'estero
in seguito alla crisi delle bilance dei pagamenti , ma nella crisi
attuale il rischio di insolvenza si è manifestato anche a causa del
lievitare dei disavanzi fiscali dei bilanci pubblici.

In altre parole ciò che sta succedendo oggi nel mondo è tutt'altro che
inusuale, ed era ampiamente prevedibile data l'ampiezza e la portata
della crisi; il problema è dato dall'eccesso di debiti (privati e
pubblici) che in qualche modo devono essere smaltiti, il che pone la
questione della ripartizione dei costi dell'aggiustamento che comunque
è necessario per consentire una ripresa. Non è un caso che le crisi
siano accompagnate inevitabilmente da conflitti sociali, politici, tra
Stati, e talvolta da guerre.

È per questi motivi che oltre un anno fa prospettai una possibile
soluzione al problema dell'eccesso di debito pubblico generato dalla
crisi, valida nella ipotesi (del tutto irrealistica) che la
consapevolezza dei problemi qui illustrati fosse adeguata, e che la
ragione potesse guidare le scelte economiche del mondo (nota 2).

In sostanza si trattava di collocare in uno speciale Fondo
l'incremento di debito dovuto alla crisi finanziaria finanziandolo con
i proventi di una imposta a ciò dedicata (che poteva essere una tassa
sulle transazioni finanziarie), isolando così l'extra-debito dai
bilanci degli Stati, e garantendo il suo smaltimento nel lungo periodo
senza interferenze con il funzionamento delle economie. Il Fondo
avrebbe potuto operare liberamente sul mercato e quindi produrre anche
profitti. Questa soluzione ove adottata sarebbe stata più utile di
quelle che tradizionalmente si producono dopo la crisi finanziaria per
smaltire i debiti: inflazione, consolidamenti, ripudi, defaults degli
Stati, repressione finanziaria, ecc. vale a dire la rappresentazione
cui stiamo oggi assistendo.

Lo stesso ragionamento, dall'economia globale poteva essere trasferito
su scala regionale (a livello europeo) e così la proposta si è
trasformata in quella di convertire in eurobonds l'eccesso di debito
dei Paesi europei (nota 3). Infine la proposta è stata semplificata
ulteriormente sottolineando che se una imposta sulle transazioni
finanziarie non fosse facilmente attuabile, o ponesse problemi dal
momento che il suo gettito non è distribuito in modo uniforme tra gli
Stati, sarebbe  sufficiente prevedere il finanziamento del servizio
degli eurobonds a carico dei singoli Stati in proporzione al debito
conferito nel Fondo mediante un esplicito ear-marking (destinazione
prioritaria) delle loro entrate di bilancio al servizio del debito
comune. Inoltre è possibile dimostrare che, dato il prevedibile costo
degli eurobonds (tasso di interesse), i risparmi determinati dalla
convergenza dei tassi sarebbero tali da consentire non solo il
riequilibrio delle finanze pubbliche degli Stati ma anche la
compensazione degli eventuali extra costi a carico dei Paesi virtuosi
da parte di quelli "viziosi" che trarrebbero il massimo vantaggio
dalla emissione degli eurobonds (nota 4). Da questo punto di vista non
mi sembra necessario prospettare forme di garanzia reale per il Fondo
che dovrebbe emettere gli eurobonds, come avviene nella proposta di
Prodi e Quadrio Curzio ( l'oro delle banche centrali); infatti il
servizio del nuovo debito europeo dovrebbe avvenire mediante un flusso
di esborsi correnti ( interessi, ecc.) e sarebbe comunque necessario (
e sufficiente) garantire tale flusso dalle entrate correnti dei
bilanci dei singoli Stati e/o da imposte a ciò dedicate e destinate (
come la FTT nella proposta Visco). Il passo logicamente e
temporalmente successivo dovrebbe essere, ovviamente, la previsione di
imposte (o comunque gettito) di pertinenza diretta dell'Unione, e
quindi l'inizio di una vera  e propria politica fiscale europea.

In materia di eurobonds sono state avanzate diverse ipotesi e proposte
(nota 5): da parte di Monti, Delpla e von Weisäcker, Juncker e
Tremonti, fino a Prodi e Quadrio Curzio. Tutte seguono lo stesso
schema: ipotizzano cioè che si possano emettere titoli di debito
europeo per un ammontare massimo pari al 60% del Pil dell'eurozona. La
proposta Visco invece ipotizza o che si trasformi in eurobonds solo la
parte corrispondente all'incremento del debito provocato dalla crisi,
o – viceversa - quella che eccede il 60% del Pil di ciascun Paese.
L'obiettivo della stabilità richiede infatti che i singoli Paesi
possano ripartire con nuove regole, nuovi controlli e adeguate riforme
dalla stessa condizione iniziale. Si eviterebbe così il rischio di un
trattamento pregiudizialmente diverso dei singoli Paesi da parte dei
mercati. Ciascun Paese dovrebbe finanziare dal proprio bilancio sia il
servizio degli eurobonds che quello relativo al debito domestico.

Né è difficile capire perché siamo arrivati alla situazione attuale.
Dopo la introduzione dell'euro, la convergenza dei tassi di interesse
e l'integrazione dei mercati finanziari fu immediata come si conviene
in condizioni di moneta unica, e tale situazione ha prevalso fino a
pochi mesi fa quando l'intero sistema della moneta unica è entrato in
crisi per ragioni evidenti: il rifiuto dell'Unione europea di gestire
insieme e collettivamente la crisi finanziaria e in particolare quella
delle banche considerandola questione nazionale da trattare a livello
di singolo Stato. È emersa così l'insufficienza tecnica e politica
della costruzione dell'euro: era quello invece il momento per
utilizzare l'emissione di eurobonds per ricapitalizzare congiuntamente
le banche europee e far fare un passo avanti al processo di
integrazione. La attuale crisi dell'euro è infatti poco giustificabile
da un punto di vista economico: la zona euro presenta livelli di
debito piuttosto ridotti (80-85%) rispetto a quelli degli USA, del
Giappone, del R.U e un equilibro nelle partire correnti e tuttavia è
stata più fortemente colpita dai mercati: se l'Europa avesse agito
come un unico soggetto economico tutto ciò non sarebbe accaduto. Il
possibile default di alcuni Paesi, Italia compresa, e la conseguente
possibile disintegrazione della zona euro sono il prodotto di errori,
miopie e nazionalismi riemergenti che richiamano alla memoria vicende
non dissimili verificatesi dopo la crisi del '29. Soprattutto in
Europa si è affermata nel dibattito politico corrente una singolare
inversione tra le cause e gli effetti della crisi. Mentre – come si è
detto – è del tutto ovvio e pacifico che i disavanzi e la crescita del
debito sono un effetto della crisi, in Europa si è teorizzato, e ci
stiamo comportando come se la crisi fosse l'effetto, e non la causa,
dei disavanzi di alcuni Paesi periferici, sicché sarebbe necessario
per risolvere i problemi europei, che questi Paesi, ai quali di è
aggiunta l'Italia, deflazionassero pesantemente la loro economia costi
quello che costi. È abbastanza ovvio che così facendo si peggiora la
situazione anziché risolverla, si creano risentimenti, paure e
sofferenze reali che potrebbero essere evitati.

Il problema rimane quindi quello della gestione dei debiti provocati
dalla crisi finanziaria: se si ritiene che debbano essere ripianati
all'interno dei bilanci di ciascun Paese, non rimane che procedere
come stiamo facendo e ipotecare 10-20 anni delle nostre vite
dedicandole a questo compito. Se viceversa si prende atto della realtà
(anche storica (nota 6)) e si cercano sistemi cooperativi e meccanismi
e strumenti finanziari idonei a gestire la crisi, (come sono anche gli
eurobonds) è possibile riprendere una fase di sviluppo più ordinata di
quella che si è risolta nella catastrofe del 2007-09. Ma per fare ciò
sarebbero necessarie leadership politiche molto forti, consapevoli e
autorevoli.

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1) Naturalmente non era necessario salvare, oltre alle banche, anche i
proprietari delle banche. Sarebbe stato invece opportuno
nazionalizzarle, sostituire il management e trasformare gli
obbligazionisti in azionisti in modo da costringere anche loro a farsi
carico dei costi della crisi. Le banche così risanate potevano
successivamente essere riprivatizzate. Non aver seguito questa
strategia che pure era stata prospettata (persino in maniera
bipartisan), è stato il principale errore che può essere imputato al
Presidente Obama. Più probabilmente, però, tale comportamento riflette
l'influenza (nefasta) del finanziamento privato della politica negli
S.U., e cioè la crisi della democrazia americana.
2) Lo stesso problema era stato sollevato da Paolo Savona più o meno
contemporaneamente in alcuni articoli comparsi sul Messaggero.
3) V. Visco: Innovative Financing at a Global and European Level,
Audizione la Parlamento Europeo 10 gennaio 2011.
4) V. Visco Il Sole 24Ore 16 luglio 2011
5) Il fatto che l'emissione di eurobonds possa in teoria e in pratica,
essere utilizzata per finanziare infrastrutture e programmi di
investimento, o per "europeizzare" parte del debito dei Paesi della
zona euro è ovviamente del tutto irrilevante.
6) Reinhart e Rogoff hanno dimostrato come i grandi debiti derivati
dalle grandi crisi non sono mai stati ripagati interamente nella
storia del capitalismo. V. A. Decade of Debt NBER w.p. n. 16.827.

giovedì 1 settembre 2011

La neo-Costituzione preventiva


Un colpo di sole, un effetto della calura agostana? No, questa linea compare nel decreto sull´emergenza economica fin dal suo primo articolo: «In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio, si applicano le disposizioni di cui al presente titolo». E più avanti, in maniera ancor più sconcertante, si aggiunge: «In attesa della revisione dell´articolo 41 della Costituzione, Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l´iniziativa e l´attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».

 

"In anticipazione", "in attesa"? Se si rispetta la più elementare grammatica costituzionale, queste sono espressioni insensate, e pericolose. Prima di un cambiamento legislativo, le norme esistenti debbono restare ferme, soprattutto quando si tratta di norme costituzionali - fondamenta del sistema giuridico. Ma quegli articoli del decreto provano il contrario, sono la testimonianza della scomparsa del senso stesso di che cosa sia una Costituzione, manifestano una voglia di liberarsi delle regole costituzionali ignorando la procedura per la loro revisione e imponendo addirittura una radicale e rapidissima (un anno!) riscrittura dell´intero ordine giuridico dell´economia.

 

La via della "decostituzionalizzazione", già evidente nelle proposte di riforma della giustizia, si fa sempre più scivolosa, può portare ad un vero disordine giuridico. Considerate solo una ipotesi. L´annunciata riforma dell´articolo 41 non viene approvata in Parlamento o è bocciata dal voto dei cittadini, come accadde nel 2006 quando più di sedici milioni di italiani dissero di no alla riforma costituzionale del centrodestra.

 

A questo punto l´"attesa" sarebbe finita e, mancando il necessario appiglio costituzionale, verrebbe travolta l´intera nuova impalcatura giuridica approvata nel frattempo da Stato e sistema delle autonomie. E, al di là di questa ipotesi estrema, l´arbitrio del legislatore potrebbe già essere censurato dalla Corte costituzionale, alla quale è possibile che si rivolgano enti locali rispettosi della Costituzione vigente. Per evitare disastri del genere, un Parlamento serio dovrebbe cancellare quelle norme.

 

Il predicato rigore finanziario finisce così con l´essere accompagnato da un irresponsabile lassismo istituzionale, le cui tracce nel decreto sono molte, figlie di improvvisazione e incultura. L´improvvisazione è stata resa clamorosamente evidente dai litigi scoppiati nella maggioranza, e le ipotesi di modifica sono tante che ben possiamo dire che il decreto all´esame del Senato è stato svuotato di ogni senso politico e istituzionale, è ridotto a un canovaccio sul quale nelle prossime settimane si svolgeranno prove di forza tra gruppi in conflitto.

 

L´incultura traspare in molte norme e nella discussione che le accompagna, dove quasi non v´è traccia di capacità di analizzare i difficili problemi da affrontare. Nel momento stesso in cui i contenuti del decreto venivano annunciati, Tito Boeri, con l´abituale sua nettezza, metteva in evidenza come la riforma dell´articolo 41 fosse un diversivo, perché le difficoltà dell´economia non potevano in alcun modo essergli imputate; e come l´introduzione nella Costituzione della regola del pareggio di bilancio determinasse una rigidità rischiosa, ricordando gli effetti negativi che un vincolo del genere aveva appena prodotto negli Stati Uniti.

 

Molti hanno ripreso questi rilievi, ai quali tuttavia la discussione politica ha dedicato un´attenzione sommaria e disinformata, visto il modo in cui si è fatto riferimento agli articoli 41 e 81 della Costituzione. Posso sommessamente ricordare che alla genesi di questi due articoli ha dedicato studi penetranti uno studioso attento, Luigi Gianniti, e non sarebbe certo una perdita di tempo se qualche parlamentare desse loro un´occhiata?

 

Giuste e alte sono state le proteste contro l´iniquità del decreto, che diviene un moltiplicatore di quelle diseguaglianze che stanno distruggendo la coesione sociale, a parole tema di cui tutti si dicono preoccupati. Gli obblighi imposti dalla crisi finanziaria non sono colti come una opportunità per distribuire equamente il peso della manovra, per chiamare all´"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (articolo 2 della Costituzione) i moltissimi che finora ad essi si sono sottratti. Leggendo il decreto, si coglie piuttosto la voglia di usare questa opportunità per una sorta di regolamento finale dei conti soprattutto con i sindacati, con l´odiata Cgil.

 

Alle letture consolatorie vorrei contrapporre l´impietosa analisi del nostro maggiore studioso di diritto del lavoro, Umberto Romagnoli, che ci ricorda che il lavoro non è una merce e la dignità del lavoratore non è negoziabile. E le infinite smagliature delle parti dedicate alle dismissioni di immobili, alla privatizzazione di servizi e beni pubblici? Si alimentano illusioni facendo balenare l´esistenza di un patrimonio immobiliare la cui vendita colmerebbe ogni voragine dei debiti pubblici. Ma quel patrimonio è al 70% nelle mani di enti locali e i veri esperti stimano che soltanto una quota oscillante tra il 5% e il 10% potrebbe essere proficuamente messa sul mercato. L´urgenza dovrebbe essere sfruttata per accelerare quel lavoro analitico sui beni pubblici invocato da vent´anni e per arrivare finalmente a una classificazione aderente alle loro funzioni (esistono già disegni di legge in materia), non per incentivare privatizzazioni scriteriate (non insegna nulla l´esperienza degli anni Novanta?), per fare cassa sacrificando beni e interessi collettivi.

 

Vi sono sicuramente beni che possono essere messi sul mercato, ma ancor più importante è stimolare le gestioni virtuose di quelli che possono garantire con continuità risorse al settore pubblico. Proprio in questi giorni si è messo in evidenza come vi siano frequenze digitali che possono assicurare un gettito di tre miliardi. E non dimentichiamo il colpo di mano, per fortuna sventato, con il quale si voleva fare un vero regalo ai gestori degli stabilimenti balneari, portando a 90 anni la durata delle loro concessioni. Traspare dal decreto un´altra voglia di rivincita, contro i 27 milioni di cittadini che, votando sì nei referendum sull´acqua come bene comune, hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati. Sarebbe grave se il decreto servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati.

 

Stefano  Rodotà

La Repubblica, 28 agosto 2011

giovedì 25 agosto 2011

Pareggio di bilancio e Costituzione

1 Con interessanti e tempestive iniziative, senatori e deputati della maggioranza e della opposizione, hanno avanzato una serie di proposte per riscrivere l'art. 81 Cost., architrave del nostro impianto delle istituzioni di bilancio. Il Governo ha annunciato una sua iniziativa sulla stessa materia. E' molto importante che una discussione seria su questa materia parta dal Parlamento che è il titolare dei poteri delle borsa, consentendo di riesaminare, nel tempo di riflessione necessariamente non breve che la Costituzione prevede per la sua modifica, una serie di nessi che richiedono, a parere di chi scrive, la "vista lunga". Scopo di questa breve riflessione è offrire qualche primo elemento per mettere a fuoco alcuni nessi relativi ai rapporti di potere tra governo e parlamento, tra stato ed autonomie territoriali.

 

2 Nel momento in cui l'Unione europea è alla ricerca, spinta da eventi troppo a lungo solo subiti, di un nuovo approdo istituzionale  e mentre Germania e Francia, governate da coalizioni di centro destra, con soluzioni diverse ma rispettose del loro impianto costituzionale, hanno reso più stringenti i rispettivi meccanismi di controllo fiscale (entrata – spesa), appare utile che anche la nostra classe politica mostri di volersi misurare con questo tema. Potrebbe essere il segno di un cambio di passo condiviso nelle nostre istituzioni fiscali. Tuttavia per far ciò in modo credibile occorre aver chiaro alcuni punti; in primo luogo che modifiche costituzionali così delicate devono avere il giusto tempo di preparazione e realizzare effettive convergenze, politiche e tecniche, molto ampie, cioè segnare un cambio reale nella committenza politica; in secondo luogo, che tutte le misure necessarie ad accelerare i tempi di correzione strutturale dei nostri conti e a varare misure per una crescita equa e duratura, sono adottabili nel contesto attuale, senza alcun limite o vincolo di natura costituzionale. La Costituzione non impedisce alcun pareggio di bilancio, di qualsiasi natura. Sarebbe veramente grave consentire lo stravolgimento del testo costituzionale, usando il pretesto dell'emergenza finanziaria, per conseguire obiettivi di divisione politica e di rafforzamento di una maggioranza in evidente difficoltà. Se si vogliono risanare i conti si mettano in campo misure adeguate. E la Costituzione certamente non c'entra niente. Anzi, misure strutturali che spostano potere d'acquisto dai ceti abbienti verso i giovani, chi è in difficoltà e verso le imprese che producono ed esportano sono del tutto coerenti con la nostra Carta fondamentale. Costituzionalizzare poi un concetto tecnicamente molto controverso, come la solidarietà tra generazioni, che è comunque già chiaramente presente nell'impianto della Carta, è un'altra operazione a forte contenuto ideologico.

 

3 Tuttavia quello della governance del bilancio pubblico è un tema cruciale, su cui è utile misurarsi, se si colloca la situazione italiana nel contesto europeo. Si può scegliere come criterio base di equilibrio il pareggio tra tutte le entrate e le spese finali, trattando in modo specifico la decisione sul debito e si può scegliere di bloccare su questa regola anche tutti i singoli enti del titolo V o i comparti che lo compongono (Regioni, Comuni, Province, Città metropolitane); tuttavia anche alla luce della nuova governance europea (e delle recenti riforme tedesche e francesi) non appare giuridicamente appropriato e tecnicamente consigliabile, in linea economica, espellere dai mezzi di finanziamento della spesa pubblica (in particolare per investimento) il debito. Le ragioni sono arcinote e infatti i testi presentati fanno riferimento a maggioranze qualificate per fare debito o al concetto di pareggio economico strutturale, cioè corretto per il ciclo e al netto delle una tantum. Allora si tratta di capire se si vuole dare un messaggio ai mercati o invece si vuole porre mano ad una revisione strutturale delle nostre istituzioni di bilancio, sottraendole ad una egemonia ragionieristica e formalistica, che ha dato fin qui risultati assai deludenti, innestandole invece  in una solida e trasparente governance economica. In questa egemonia la struttura giuridica delle posizioni soggettive è stata usata fin qui come difesa di un certo modo di strutturare il bilancio e le leggi fiscali, ma si tratta in larga misura di un pretesto per difendere posizioni di controllo. Ma il controllo degli andamenti di spesa e entrata ha oggi bisogno di altri e più aggiornati strumenti.

 

4 In ogni caso, l'affermazione di principio di un criterio di pareggio strutturale dovrebbe tradursi in meccanismi procedurali appropriati nelle parti della Costituzione che disciplinano la formazione della legge dello Stato (art. 81 Cost.) e nel titolo V. E in queste due parti dovrebbe tradursi in meccanismi "neutri" di garanzia, per le opposizioni e le autonomie territoriali, a supporto della decisione dell'Esecutivo di intervenire nei procedimenti legislativi e normativi a tutti i livelli, per salvaguardare questa regole; e tali meccanismi dovrebbero seguire la fase di gestione e di rendicontazione, individuando appropriati interventi di correzione. Dunque, andrebbero affrontati subito i nodi della trasparenza e monitorabilità dei dati di finanza pubblica che segnano gli sconfinamenti non desiderati. Francia e Germania hanno prassi e istituti consolidati che non assegnano queste informazioni al dominio esclusivo del Ministro dell'economia. E' altresì intuitivo che se tutti gli enti devono essere in pareggio, senza debito, la perequazione statale approfondisce la sua funzione di equilibrio e la centralizzazione della decisione sul debito accentua il tratto centralista del sistema, oggi parametrato sul patto di stabilità, con gli inconvenienti ben noti. Si possono immaginare meccanismi di distribuzione del debito che compensino in modo virtuoso, tra enti (o comparti) in avanzo ed enti in disavanzo, ma si tratta di questioni tecniche complesse, che richiedono adeguate modifiche del titolo V, dove ora l'art. 119 Cost, riconosce una vera golden rule: gli enti possono indebitarsi per fare investimenti. Si tratta dunque di riconoscere in pieno la competenza esclusiva dello Stato nel programmare la l'emissione e la gestione del debito, riconoscendogli una competenze esclusiva (e non concorrente) in materia di coordinamento della finanza pubblica. Risulta ora evidente come tutta la costruzione del titolo V sia stata il frutto di scelte affrettate e tecnicamente deboli, proprio sul tema cruciale dell'autonomia fiscale; ora c'è l'occasione per ritornare in modo approfondito su questi profili, liberandoci dalla cattiva egemonia di economisti e giuristi che hanno assecondato un disegno fondato su gravi equivoci, teorico pratici, a cominciare dall'enfasi sul cosiddetto residuo fiscale, che segmenta il paese senza alcun costrutto. Chi scrive da tempo ha osservato che il vestito di arlecchino fiscale che si sta cucendo addosso al paese serve solo a far scappare gli investitori, nazionali ed esteri. E tutto quanto di sensato si è fin qui fatto (omogeneizzazione dei conti; costi standard, sanzioni agli amministratori incapaci), nulla a ha che fare col federalismo fiscale, che del resto è termine mai usato in Costituzione.

 

5 Con la vigente cornice normativa è stato possibile approvare in pochissimi giorni, in una fase di eccezione, una manovra molto rilevante; la tecnica utilizzata è quella che segna da almeno tre legislature l'assetto dei rapporti di potere tra governo e parlamento: decreti legge; maxi emendamento governativo che chiude la discussione e fiducia. I parlamentari bipartisan, se hanno la vista lunga, dovrebbero chiedersi verso quale punto di equilibrio procedurale intendono spostare il sistema; ritengono che la situazione prevalsa in questi anni sia un punto di approdo per una democrazia europea? Autorevoli esponenti di questa maggioranza ritengono che lo stato di eccezione di questa ultima manovra debba e possa essere la regola; è su queste questioni di procedura che sono poi di sostanza sarà molto interessante capire quale è l'idea dei rapporti governo - parlamento che questi parlamentari intendono alimentare. In altri termini quale è la loro idea di democrazia europea.

 

6 Sono questioni sulle quali occorre riflettere con cura; non ci sembra appropriato trattare le procedure della democrazia rappresentativa come un mero nesso tecnico economico; l'esperienza del secolo che è finito e di quello cominciato, in uno scontro frontale tra calcolo dei mercati finanziari e scelte delle istituzioni democratiche, indica che la governance di questi sistemi e le relative performance economiche, sono intrinsecamente fondati sulla trasparenza e l'equità dei processi di creazione e distribuzione della ricchezza prodotta. Senza partecipazione, senza controllo delle opposizioni, senza strumenti adeguati per il controllo e senza trasparenza, la democrazia rappresentativa si trasforma in una procedura falsamente neutra. C'è un continuum tecnico nell'esame delle scelte fiscali; la sola centralizzazione della decisione "blindata" nel governo, col parlamento che fa da spettatore muto, non serve a tranquillizzare i mercati, ma certamente non produce soluzioni per la crescita. Le lobbies lavorano nelle stanze del governo, come nel parlamento, e blindare la scelta del governo, senza controllo e discussione vera in parlamento, è un tradimento della democrazia europea. Ce lo ha ricordato poche settimane fa una grande autorità, morale ed economica: A. Senn. Le iniziative bipartisan saranno una utile occasione per saggiare la tempra della cultura democratica ed europeista dei nostri politici.

 

Paolo De Ioanna

Consigliere di stato


martedì 2 agosto 2011

La lunga estate delle leggi ad personam

di Franco Cordero   

Il teatro berlusconiano ha movimenti e statue da presepio meccanico. Luglio 2010: Sua Maestà pretendeva che il Senato votasse subito un ddl sulle intercettazioni, emendato dalla Camera; sapendosi seduto sul camino d´un vulcano, temeva l´eruzione; quanta roba bolliva là sotto, dalle serate d´Arcore alla P4. Non c´era più tempo: l´estate porta la scissione nel Pdl; da lì un travaglio chiuso sul filo del rasoio, con l´acquisto d´anime transumanti e sopravvivenza artificiale d´un governo catalettico. Adesso comanda lavori legislativi in settantadue ore, prima che Palazzo Madama chiuda. Nel frattempo pioveva sul bagnato. Annus horribilis: gli votano contro Torino, Milano, Napoli, mentre l´anno scorso aveva nella manica l´asso plebiscitario o almeno credeva d´essere agonista irresistibile; quattro referendum affondano altrettante leggi sue; invocava l´arrocco nel voto sull´arresto d´un parlamentare Pdl (posizione strategica, essendo in ballo la P4) e soccombe ancora, tradito dalla Lega. Non è più lui nella fantasia collettiva e, stando ai casi analoghi, i carismi svaniti non tornano. Questa diversione parlamentare sa d´estremo esorcismo. Vediamola.

 

Delle due novità una non è tale. Secondo l´art. 238-bis (interpolato dalla l. 7 agosto 1992 n. 356), le sentenze «irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova» dei fatti ivi accertati. Allora notavo come in sé non provino niente: l´eventuale apporto istruttorio viene dal materiale raccolto, comunque l´abbiano usato, bene o male, e sta nei relativi verbali; analisi del discorso testimoniale o argomenti induttivi, presi dalla motivazione, valgono nella misura della qualità logica, poco o tanto; e vengono utili anche detective stories intelligenti, come ne scriveva Edgar Allan Poe (Procedura penale, 8ava ed., 2006, 805 sg.). Insomma, ogni giudice deve risolversi l´equazione storica. Se vogliamo attribuire un senso all´art. 238-bis, intendiamolo così: non è richiesta la copia autentica dei singoli verbali, risultando dalla sentenza il contenuto degli stessi; l´interessato può confutarla esibendoli; resta fermo il diritto d´escutere il testimone ogniqualvolta la parte fosse estranea a quel giudizio. Su tale punto, dunque, l´ennesima manomissione pro Domino Berluscone lascia le cose quali erano.

 

L´altro fendente confisca un potere senza il quale i dibattimenti diventano teatro dell´assurdo in mano al guastatore. In limine i contraddittori espongono le rispettive prove: spetta al giudice ammetterle, se compatibili col sistema (non lo sono, ad esempio, iudicia feretri, sedute spiritiche, narcoanalisi, lie detector); e devono essere rilevanti, ossia tali che i relativi fatti influiscano sulla decisione. Questo secondo vaglio cadrebbe, stando ai segnali dal laboratorio, con l´intuibile elefantiasi del procedimento. Nell´arte avvocatesca d´Arcore il capolavoro è gonfiarlo, stando sur place, finché la materia penale svanisca, estinta dal tempo: udienze interminabili e manovra a tenaglia; la seconda ganascia scatta appena il tempo perso superi dati termini; il tutto sparisce dal mondo, come mai avvenuto. Sviluppano un freddo farnetichio i processi «lungo» e «breve», correlati nel piano criminofilo, roba negromantica. Nel vizioso codice vigente esiste ancora qualche limite al perditempo: il presidente taglia le liste «manifestamente sovrabbondanti» (art. 468, c. 2); sull´ammissione decide un´ordinanza, escludendo ogni prova «superflua» (art. 495, c. 4). Nel rito futuribile diventa padrona la parte: sfilano quanti testimoni l´interessato ritiene conveniente indicare; B. voleva escuterne 1500, il cui esame, laboriosamente condotto, riempirebbe vari anni. Passatempo costoso, esperibile da chi abbia tanti soldi. Ad esempio, N prospetta un´ipotesi difensiva nel cui contesto assume qualche vago rilievo la condizione climatica, e porta in aula tutti i meteorologi reperibili nei due emisferi, o chiama duemila testimoni sul seguente tema: conoscono bene l´imputato, omicida flagrante; raccontando quel che sanno sul conto suo forniranno dati alla diagnosi della personalità, importante nel quantificare la pena. Sono innumerevoli le possibili diavolerie.

 

Più delle precedenti, questa ventesima lex ad personam, utile nei casi Mills e Ruby, presenta l´immagine d´un paese sfigurato: decade a vista d´occhio; non ha futuro; e l´uomo che da 17 anni v´imperversa (ma l´azione tossica ne conta almeno trenta), ordina alla troupe d´allestirgli una sporca via d´uscita dai giudizi penali, noncurante della figura. Da come gli ubbidiscono, vediamo a che punto sia l´insensibilità morale. I reggicoda definiscono «sacrosanto» il diritto d´allungare i tempi d´una macchina al collasso. Non stupisce che il Pdl gli corra dietro: perdurando le rendite, lo seguiranno alla porta dell´inferno, con un salto laterale in extremis perché da queste parti la tragedia ha poco sèguito, né valgono fedeltà assolute; ogni domestico misura il padrone a occhiate fredde. Non se le sente addosso? Aspettiamo le scelte leghiste: andargli dietro sarebbe perdita secca, qualunque corrispettivo offra; era gesto astuto votare l´arresto del parlamentare Pdl mercoledì 20 luglio; ricadendo nell´abito servile, mascherato da insofferenze inconcludenti, il Carroccio perderebbe ogni credito. Corre un tempo climaterico. L´ultima mossa conferma quel che sapevamo: l´Olonese non ha freni, né morale né estetico, e nemmeno l´elementare prudenza con cui agivano famosi scorridori. A proposito, viene in mente un caso tedesco 1938: Werner von Fritsch, comandante dell´esercito, deve dimettersi sotto false accuse fabbricate dalla Gestapo; poche settimane dopo risulta innocente ma cosa fatta capo ha; ormai, scrive in una lettera, il popolo tedesco è inseparabile da Hitler, finiranno nell´abisso. Speriamo superfluo lo scongiuro: gl´italiani sanno sopravvivere e Re Lanterna non è «der Führer», sebbene così lo chiamasse sei anni fa un´operosa emissaria Mediaset nella Rai, né sa cosa significhi Götterdämmerung; auguriamogli lunghi ozi in uno dei suoi paradisi, dove non mancheranno le odalische.

 

La Repubblica, 29 luglio 2011 

venerdì 17 giugno 2011

Il lavoro e la Costituzione

Una sintesi dell'intervento all'assemblea nazionale di "Lavoro e libertà", che si è tenuta a Torino il 28 maggio 2011

di Lia Fubini

 

Il lavoro è un elemento fondativo della nostra Repubblica. La nostra Costituzione tutela il diritto al lavoro e i diritti dei lavoratori. Dal dopoguerra il diritto del lavoro ha percorso una lunga strada, il cui momento più esaltante è lo Statuto dei lavoratori del 1970, quando la Costituzione entrò in fabbrica, determinando un cambiamento profondo: il riconoscimento della libertà dell'azione sindacale e della dignità del lavoro. A partire dagli anni '80, però, sono stati fatti significativi passi indietro. È un fenomeno che ha coinvolto tutto il mondo industrializzato e ha toccato l'Italia con un certo ritardo ma, negli ultimi anni, in modo particolarmente grave.

 

Il lavoratore-usa e getta

Il predominio del pensiero liberista avviato con la svolta di Thatcher e Reagan ha posto al centro dell'attenzione il mercato che, con la sua ipotetica "mano invisibile", sarebbe in grado di risolvere ogni problema. Tuttavia il mercato lasciato a se stesso, la cosiddetta deregolamentazione, altro non è stata che riscrittura delle regole a vantaggio dei più forti. L'idea di mercato ha ormai preso il posto delle relazioni sociali; gli obiettivi politici di integrazione sono venuti meno in nome del funzionamento del mercato. Col tempo si è consolidata l'idea che la pressoché illimitata flessibilità/precarietà del lavoro sia condizione necessaria per far fronte alla competizione internazionale e sia funzionale alla crescita dell'economia. Al lavoro come vettore di realizzazione dell'individuo si è andata sostituendo la figura del lavoratore-merce usa e getta. In questa ottica il lavoratore non è più al centro della considerazione sociale: il baricentro si è spostato sull'impresa e sulle sue esigenze di profitto a cui si contrappone, caso mai, non il lavoratore o il cittadino bensì l'individuo-consumatore. Anche per gran parte della sinistra lo storico conflitto lavoro-capitale è stato progressivamente sostituito da una pretesa conciliazione fra gli interessi dell'impresa e quelli del consumatore. Da più parti si sostiene che è definitivamente tramontata l'epoca dell'identificazione delle persone con il lavoro, che la realizzazione dell'individuo passa per altre vie, in particolare attraverso il modello di consumo. L'idea di poter separare il consumo dal lavoro, di considerare il consumo come elemento identitario a sé ha rivelato tutta la sua debolezza con la crisi finanziaria. Con la finanziarizzazione dell'economia si è creata l'illusione di poter creare ricchezza senza lavoro, di poter separare insomma il lavoro dal consumo. Negli Usa anche i poveri potevano accedere al consumo attraverso il credito facile e i guadagni sui mercati finanziari erano in grado di favorire consumi disgiunti dai ruoli produttivi. In questa ottica il lavoro ha subito una crescente svalutazione, ma con la crisi è emersa l'insostenibilità di tale situazione. Tale meccanismo è stato proprio una delle cause della recessione in corso, che ha rivelato quanto questo sistema fosse fragile e instabile.

 

Le regole del mercato

In Italia l'arretramento nell'applicazione delle norme costituzionali relative al lavoro è vistoso. Domina ormai il modello secondo cui la tutela del lavoro, la formazione professionale e la salvaguardia del livello delle retribuzioni non competono allo Stato bensì al mercato. Nel "Libro Bianco sul mercato del lavoro" del 2001 si sostiene l'esigenza di un cambiamento radicale del sistema di tutele di cui godeva il lavoratore dipendente, trasformando il sistema di regole costruito a partire dal dopoguerra su cui si reggevano i rapporti di lavoro in un sistema di tutele operanti nel mercato. Nasce l'idea di sostituire allo statuto dei lavoratori lo statuto dei lavori, che anche da un punto di vista semantico implica un distacco del lavoro dal lavoratore come persona. Con la legge 30 del 2003, la cosiddetta "legge Biagi", si rompe ogni argine: si moltiplicano i contratti atipici, viene meno la concezione del lavoro come elemento di realizzazione dell'individuo, si afferma l'idea che è meglio un lavoretto precario e sottopagato che niente. La logica della liberalizzazione "secondo le regole del mercato" ha indebolito il potere contrattuale dei lavoratori, in particolare di quelli meno qualificati, che hanno conosciuto un impoverimento crescente in assenza di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali.

 

 

Precario non è costituzionale

Si è cancellata l'idea di quello che l'Ilo chiama il decent work, il lavoro dignitoso, che è poi l'unica idea di lavoro, perché senza diritti il lavoro non è tale. Si è invece insinuata l'idea secondo cui l'importante è che la flessibilità non si trasformi in precarietà, è necessario che si attivi un sistema adeguato di ammortizzatori sociali. Ma questa idea, che ormai è radicata anche in gran parte della sinistra, è inaccettabile e lontana anni luce dall'idea di lavoro contenuta nella nostra Costituzione. Perché gli ammortizzatori sociali potrebbero risolvere i problemi materiali dell'intermittenza del reddito, ma il lavoro non è solo fonte di reddito, è un elemento identitario e fonte di realizzazione della persona. La cosiddetta flexsecurity altro non è che un velo sottile steso sulla precarietà: non elimina la precarietà, la rende solo un po' meno gravosa, al massimo può dare la certezza del reddito, ma non soddisfa le esigenze di realizzazione del lavoratore. Ricordiamo peraltro che in Italia siamo ben lontani anche dall'aver realizzato una qualche forma di flexsecurity. Non è garantita ai lavoratori precari né la continuità del reddito, né il diritto a una pensione decente. I diritti legati al lavoro e le forme di protezione sociale garantiti dalla Costituzione stanno diventando sempre più deboli. Solo il lavoro stabile consente all'individuo di autodefinirsi nella società: esperienze di lavoro frammentarie e discontinue impediscono l'affermazione dello status di lavoratore, ne indeboliscono il ruolo e il senso di appartenenza alla società, sottraggono al lavoratore l'identità sociale e ostacolano il miglioramento della formazione professionale dei lavoratori.

 

La sottile coperta dei diritti

La precarietà, il lavoro flessibile e instabile che ormai investe un numero crescente di persone, ha trainato anche il mondo dei lavoratori "garantiti" a tempo indeterminato. Ed è così che spesso ci si sente ripetere che è necessario assicurare più diritti ai lavoratori flessibili mentre i lavoratori stabili dovrebbero rinunciare a qualche diritto a favore dei precari, quasi che i diritti fossero una coperta che si può tirare da una parte o dall'altra. Invece è proprio il contrario. Se si erodono i diritti di qualcuno, col tempo l'erosione dei diritti si estende, la coperta si restringe, si logora, diventa più sottile. È successo con la legge 30/2003: si sosteneva che i nuovi contratti di lavoro avrebbero favorito l'emersione del lavoro nero, si toglievano diritti a chi ne aveva per darne qualcuno a chi ne era privo. Ciò non è avvenuto ovviamente. Altrettanto emblematico è il caso Fiat, prima con Pomigliano, poi con Mirafiori e Bertone. L'erosione dei diritti si estende a macchia d'olio e, una volta rotti gli argini, risulta sempre più difficile arrestare la deriva del lavoro.

 

L'"artigiano" di Sennett

Il lavoro decente e dignitoso fa bene anche all'economia, perché crea l'identificazione del lavoratore con il lavoro, crea – per dirla con Sennett – "l'uomo artigiano", l'uomo che ricerca per sé e per la propria soddisfazione il lavoro fatto ad arte, che, attraverso un processo continuativo di apprendimento, realizza al meglio l'oggetto del suo lavoro, qualunque esso sia. Se da un lato questa è la condizione necessaria per il lavoratore per creare e difendere la propria identità, d'altro lato costituisce anche la condizione necessaria per il buon funzionamento dell'attività produttiva. Il lavoro svolto senza identificazione del lavoratore con la sua attività, senza interesse, giusto perché deve essere fatto per avere un reddito è frustrante per il lavoratore ma è anche poco produttivo. La crescente svalutazione del lavoro in Italia è una delle fonti dell'arretramento della nostra economia. è nel lavoro e nella crescita professionale sul lavoro che si manifesta l'identità degli individui ed è proprio la formazione professionale (di cui tratta l'art. 35 della Costituzione) che, con la ricerca, permette lo sviluppo dell'economia. Il lavoro continua a essere alla base dello sviluppo economico ed è illusorio pensare che il progresso tecnologico comporti la fine del lavoro. Anzi, la riconversione dell'economia in un'ottica ambientalista, così come il soddisfacimento di molti bisogni sociali ancora negati, richiederà notevoli input di lavoro. Si noti inoltre che la compressione dei salari che deriva da questo modello ha avuto come conseguenza anche la compressione dei consumi e il ristagno dell'economia. Non solo, è venuto meno anche lo stimolo all'innovazione che normalmente trova un elemento propulsivo nella crescita dei salari. Si è affermato così un modello produttivo basato sulla precarietà e sul basso costo del lavoro, modello che ha portato a un netto peggioramento della posizione dell'economia italiana nel contesto internazionale.

 

 

Necessità del modello partecipativo

Ci troviamo ormai in una situazione in cui si richiede al lavoratore solo di farsi carico dei rischi e degli oneri degli imprenditori, ci si appella alla contrattazione decentrata per abbassare i salari, mentre nei momenti in cui le imprese hanno fatto utili si sono ben guardate dal proporre un modello partecipativo. Si tratta di una visione miope della classe imprenditoriale italiana, considerato anche che il modello partecipativo rinsalda la pace sociale e favorisce la crescita.

Tanto la Costituzione, quando fu redatta, dava centralità al lavoro, tanto questa centralità è oggi negata: rimettere il lavoro e i lavoratori al centro è dunque la priorità se si vuole ridare dignità e sviluppo al Paese.

martedì 8 marzo 2011

Riflessione sull'Italia: iniziative in occasone del 150° dell' Unità d'Italia

Iniziative in occasione del 150° dell'Unità d'Italia

Riflessione sull'Italia

 

L'Associazione per la Costituzione, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, propone una «Riflessione sull'Italia». Il 17 marzo 1861 fu proclamato ufficialmente il Regno d'Italia, ma come ebbe a dire Massimo d'Azeglio occorreva ancora "fare gli italiani". Nella costruzione. spesso difficile e, a volte, contraddittoria, dell'Unità il Risorgimento ha avuto un indubbio valore positivo. Senza il Risorgimento saremmo restati un'espressione geografica, una congerie di staterelli. Ma oggi il problema è un altro. È ancora l'etica pubblica che manca. Per colpa di una classe dirigente che negli ultimi anni non ha saputo costruire un'etica civile condivisa.

I valori di cittadinanza che caratterizzano le moderne democrazie riguardano tanto i doveri quanto i diritti dei cittadini. I doveri si riferiscono ai comportamenti dei cittadini nei confronti dei loro simili e dello Stato, che ne rendono possibile il razionale funzionamento a favore della comunità nazionale. E i diritti riguardano le libertà che debbono essere garantite dallo Stato ai cittadini nell'esercizio delle loro attività economiche e nella loro partecipazione alla vita sociale e alle decisioni politiche, nonché i diritti a godere dei servizi e dell'assistenza cui lo Stato è tenuto nei loro confronti. Questa è la Costituzione.

Solo su queste basi, attuando la Costituzione. è possibile la formazione di una coscienza civile democratica matura che si possa definire come etica pubblica della nazione.

Riflettere sull'Italia serve appunto a riscoprire i caratteri originali postivi del Risorgimento, della lotta di Liberazione nazionale  e della Costituzione.

 

Questo il programma

 

Pinerolo venerdì 11 marzo ore 21

Salone dei Cavalieri – via Giolitti 7

Relazioni di:

Fiorenzo Alfieri: Le Istituzioni scolastiche nel processo risorgimentale e post unitario

Valdo Spini:  Coscienza civile ed etica pubblica nell'Italia del 150° dell'Unità nazionale

Introduzione  Giuseppe Buzzanga

 

Pinerolo venerdì 18 marzo ore 21

Teatro Incontro – Via Chiappero 12

Relazioni di:

Massimo L Salvadori Il cammino di una Nazione

Elvio Fassone Noi credevamo... le lotte, lo Statuto, i diritti, le Costituzioni

Modera Maurizio Trombotto

 

I relatori

Fiorenzo Alfieri: assessore alla Cultura della Città di Torino, insegnante, esponente del Movimento di cooperazione educativa.

Valdo Spini: docente universitario, di cultura socialista, più volte sottosegretario, ministro, E' membro della Chiesa valdese,:

Massimo L Salvadori: Professore emerito dell'Università di Torino, deputato (XI legislatura), collaboratore de La Repubblica..

Elvio Fassone: magistrato e presidente della Corte d'Assise. membro del Consiglio superiore della magistratura. senatore nel 1996 e nel 2001, costituzionalista.

 

Presidio a difesa della Costituzione

e della scuola pubblica

 

Pinerolo sabato 12 marzo

Piazza Facta ore 10 -12

 

Aderendo alla manifestazione promossa dalla Associazione Libertà e Giustizia per una mobilitazione diffusa in tutta Italia "a difesa della Costituzione", l'Associazione per la Costituzione ha organizzato un presidio in piazza Facta dalle ore 10 alle ore 12..

Al presidio si discuterà di scuola pubblica perche « L'attacco alla scuola è l'ennesimo di una lunga serie di tentativi di smantellamento del nostro sistema democratico» Difendiamo la scuola pubblica perché ha fatto gli italiani

mercoledì 12 gennaio 2011

La difficile costruzione dello Stato nazionale in Italia

L'Italia non è stata un paese politicamente unito dalla discesa dei Longobardi nel 568 fino al 1860. Per tredici secoli la storia d'Italia è storia di diverse formazioni politiche e statali, che si confrontano dentro un sistema in continua tensione tra Stati italiani e potenze straniere. Si può parlare quindi di un carattere multinazionale della storia italiana pre-unitaria, e anche di una dimensione fortemente regionale della storia politico-sociale del paese.[1]

Il processo di unificazione italiana andò ben oltre i progetti dei suoi artefici liberali e moderati e le previsioni delle potenze alleate. Gli accordi del 1858 tra Cavour e Napoleone III prevedevano la costituzione di un regno dell'Alta Italia per la dinastia dei Savoia. Un altro regno doveva essere formato dall'unione tra la Toscana e la gran parte dello Stato pontificio. Il regno delle Due Sicilie doveva restare qual era. Il papa avrebbe conservato Roma e il territorio circostante e assunto la presidenza della confederazione degli Stati italiani.

Napoleone III sostenne questo progetto per espandere la potenza della Francia e provare a realizzare una ripresa della politica bonapartista, con l'insediamento di sovrani francesi sia a Firenze con Girolamo Bonaparte, che a Napoli con Luciano Murat. Ma il movimento nazionale italiano, nelle due correnti liberale e democratica, dimostrò una forza superiore alle previsioni e mandò all'aria le pretese egemoniche sulla penisola di Napoleone III. A contrastare questo disegno neo-napoleonico pensò anche la Gran Bretagna, che rifiutò di associarsi alla Francia per impedire lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e poi nel Mezzogiorno continentale e contribuì così al più largo processo di unificazione italiana.[2]

La gran massa del popolo italiano – contadini e cattolici – era rimasta ai margini di questo processo. Quindi si presentava immediatamente il problema delle deboli basi sociali del nuovo Stato, aggravato dalla accelerazione estrema del processo di costruzione della nazione e di uno spirito nazionale unitario. I problemi fondamentali del nuovo Stato italiano riguarderanno perciò il consolidamento delle strutture istituzionali e della compagine nazionale.

Cavour intendeva procedere all'unificazione amministrativa del paese con un programma  di decentramento e di autonomia, secondo un modello liberale di ascendenza inglese fondato sull'autogoverno locale, condiviso dai moderati lombardi, emiliani e toscani e dagli autonomisti liguri e sardi. Questi progetti furono bloccati subito dall'esplodere di una questione delle province meridionali: rivolte contadine e brigantaggio. Il disegno di organizzazione dello Stato secondo i principi del decentramento amministrativo fu accantonato. Si definirono invece istituzioni accentrate  di derivazione giacobino-napoleonica, con i larghi poteri di governo provinciale affidati ai prefetti, e di carattere oligarchico sul terreno dei rapporti politici.[3]

Un ordinamento regionale del nuovo Stato era impedito proprio dal forte radicamento degli Stati preunitari e dalla coincidenza delle regioni con gli antichi Stati. Il forte carattere statuale dei territori regionali avrebbe finito per trasferire nel nuovo Stato i poteri degli antichi regimi e delle loro classi dirigenti. L'accantonamento della dimensione regionale, che pure restò forte nell'identità collettiva, fu così preliminare alla definizione di un sistema amministrativo uniforme e centralizzato.

Eppure la realtà corrispondeva a una Italia regionale, non a una Italia nazionale. Gli italiani vivevano separati da regione a regione, per diversi fattori concorrenti alla disomogeneità e alle divisioni interne del paese. C'erano l'isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione, la lingua italiana parlata da poco più del 2% della popolazione – ch'era pure la percentuale degli elettori abbienti ammessi al voto e alla vita politica -, le profonde differenze di clima ma soprattutto economiche e sociali tra Nord e Sud.[4]

A differenza dei paesi europei di più antica tradizione unitaria, dove la formazione di una comunità nazionale segue lentamente la costituzione degli organismi statali, in Italia i processi di statalizzazione e di nazionalizzazione procedono insieme, in forme necessariamente contratte e non secondo tempi distanti e fasi diverse. Non risulterà semplice colmare le tante, profonde fratture che dividono le aree regionali e provinciali; che oppongono ceti organici alla semplice società liberale governata dalle élites aristocratiche e borghesi e classi tendenti alla formazione di una più articolata società di massa; che separano nettamente il diffuso e rappresentativo mondo cattolico, stretto intorno all'isolamento pontificio, dalle istituzioni e dai progetti del Regno d'Italia e della società liberale.[5]

Il rapporto tra Stato e società nell'Italia liberale si sviluppa anzitutto nella ricerca di un equilibrio tra la concentrazione della politica nello Stato e il riconoscimento di un'autonomia della società, che si caratterizza proprio per la sua depoliticizzazione. Il processo di politicizzazione della società si svilupperà sia con l'accentuarsi dei contrasti sociali, sia col superamento dei conflitti localistici e personalistici. La nazionalizzazione della politica procederà col diffondersi del voto e quindi dello scambio tra centro e periferia, attraverso l'incanalamento e la contrattazione degli interessi particolaristici e localistici con i centri istituzionali.[6]

L'idea nazionale si era fondata, nel primo Ottocento, su una politica emancipatrice nei confronti dei regimi autoritari di tipo tradizionale. Nell'ultimo quarto del secolo XIX si determinerà una profonda trasformazione del significato dell'idea nazionale. Questa si avvaleva ora di una politica volta al mantenimento dello statu quo all'interno e all'esterno, che intendeva organizzare gruppi emarginati: il movimento dei lavoratori, le minoranze etniche.[7]

La nazione moderna è stata anche considerata una invenzione dei nazionalismi e dei progetti nazionalistici degli Stati ottocenteschi. In questo senso le nazioni non erano la causa della fondazione di un Stato, ma risultavano esserne la conseguenza.[8] Nelle interpretazioni attuali dei nazionalismi si confrontano posizioni di tipo modernizante e valutazioni più attente agli aspetti delle tradizioni.

Così il nazionalismo viene visto, ben più che come forma delle tradizioni e degli arcaismi delle società agricole, come la sostanza della modernizzazione industrialista, che sostituisce una superiore cultura standardizzata alle diverse culture locali.[9] Lungo questa scia si è insistito sulla compresenza della identità nazionale con diverse identificazioni sociali e regionali.[10]

Le élites socio-politiche europee si sforzarono, nell'Ottocento, di "insegnare la nazione" a contadini, braccianti, artigiani, operai. Provarono a convincere popolazioni chiuse nei ristretti confini di borghi e villaggi di essere partecipi di larghe quanto invisibili comunità nazionali. Questa comune appartenenza nazionale implicava un atto di lealtà e di consenso alle istituzioni pubbliche che disciplinavano la vita di tutti.[11]

L'idea di nazione, nell'ultimo quarto del XIX secolo, assunse sempre più i caratteri di potenza statale tendenzialmente aggressiva. L'idea nazionale divenne in misura crescente uno degli elementi costitutivi dell'autoconsapevolezza politica degli strati borghesi e piccolo-borghesi emergenti. L'identificazione della borghesia con la totalità della nazione non fu che un riflesso dell'affermazione di superiorità degli strati borghesi, provocata dai crescenti profitti e dall'acquisito rilievo sociale. Benché siano importanti gli aspetti culturali nella "costruzione delle nazioni", uno stretto rapporto con la formazione delle identità nazionali ebbe il mutamento negli indirizzi di politica economica.

Le nuove misure di protezione dei mercati e delle produzioni interne, introdotte nei paesi in via di sviluppo come l'Italia di fine ottocento, erano propagandati con una aggressiva retorica degli "interessi nazionali". Le prime norme di una legislazione sociale furono varate nella Germania di Bismarck, con l'intento conservatore di attenuare il disagio sociale provocato dal processo di industrializzazione ed evitare così il rischio di conflitti violenti e sbocchi di tipo rivoluzionario. Attraverso questa via di interventi sociali si avviava l'inserimento delle masse popolari dentro i nuovi ordinamenti statali nazionali. Era il processo di "nazionalizzazione delle masse".[12]

Una fondamentale contraddizione interna all'ordinamento liberale era quella che si poneva tra l'autoritarismo e il vero e proprio imperialismo del comando statale – massimo nelle concezioni e nelle realizzazioni dello Stato etico e dello Stato di diritto di ascndenze germaniche – e i limiti teorici e pratici di espressione dello Stato minimo fondato sulla prevalenza delle libertà individuali, e soprattutto dell'individualismo proprietario, nelle forme adottate specialmente nella teoria e nella pratica sociale e politica dell'esperienza britannica.

Il liberalismo italiano affronta questa contraddizione scegliendo un modello statocentrico. All'enfasi sul ruolo dello Stato, inteso come motore e principale referente della costruzione dell'ordinamento liberale, in Italia si accompagnano la subordinazione dei diritti e delle libertà dei cittadini e la sottovalutazione dell'autonomia e dell'iniziativa della società civile rispetto alla centralità dello Stato. Ne risulterà uno Stato sostanzialmente debole, ben diverso dallo Stato forte costruito in Germania intorno al nucleo della tradizione burocratica, e lontano anche dal più equilibrato rapporto tra Stato, libertà e società conseguito nel modello inglese.[13]

La suprema centralità dello Stato nel modello che tiene insieme Stato, società e libertà viene teorizzata e preparata per l'attuazione politica dalla scienza del diritto pubblico, rinnovata in Italia dal giurista siciliano Vittorio Emanuele Orlando. Nel clima di diffusa fiducia nelle scienze che pervade l'Europa ottocentesca e nel processo di generale riorganizzazione epistemologica delle scienze sociali, che darà luogo ai differenziati specialismi delle scienze "pure" dell'economia, del diritto, della politica, Orlando ridefinisce, sul finire dell'Ottocento, lo statuto scientifico della giuspubblicistica sulla base del metodo giuridico, del formalismo positivistico, fondato sui criteri dell'astrattezza, della separatezza, del tecnicismo. Con questi strumenti produce una teoria della crisi della forma di governo parlamentare liberale e un progetto di superamento di questa crisi attraverso l'edificazione dello Stato di diritto italiano, basato sui principi di legalità. dei diritti pubblici soggettivi, della giustizia amministrativa.[14]

Per Orlando lo Stato di diritto si configura come una persona giuridica, distinta dal governo e dalla società. I problemi della monarchia costituzionale si trasformano nella moderna dottrina dello Stato di diritto, che si configura come supremazia "giuridica" dello Stato rispetto agli emarginati principi "politici" sia del re che del popolo. La forma di governo specifica dello Stato di diritto  e dell'evoluzione della monarchia rappresentativa è il governo di gabinetto, punto d'incontro tra la prerogativa regia e l'influenza politica parlamentare. Qui il re esercita un potere effettivo nella formazione del governo e la maggioranza parlamentare non esprime un indirizzo politico vincolante. In tal caso infatti si avrebbe un governo di partito, che romperebbe il delicato equilibrio dualistico proprio della monarchia costituzionale nella forma dello Stato di diritto.

Il rifiuto radicale del governo di partito, in questo modello costituzionale, comporta l'altrettanto radicale rifiuto del partito politico. La maggioranza parlamentare non si forma intorno a un preventivo indirizzo politico, presentato alla prova del confronto elettorale. Ma scaturisce soltanto dopo le elezioni, che non operano alcuna trasmissione di potere da un popolo presunto sovrano ai suoi rappresentanti, bensì una mera designazione dei cittadini più capaci di svolgere il ruolo di legislatori e di governanti.[15]

L'assenza della forma-partito nell'esperienza politica del liberalismo italiano tra Ottocento e Novecento, l'assenza in Italia di un partito liberale (o  anche conservatore) è legata all'affermazione della teoria e della pratica della sovranità dello Stato-persona e del governo di gabinetto. La dottrina liberale italiana dello Stato di diritto afferma una forma di normativizzazione giuridica della politica e ingloba dentro di sé la nazione, la società e il popolo. Questo tipo di Stato regola una società semplice, qual è quella liberale ottocentesca, dove sono da eliminare i conflitti, ritenuti distruttivi della superiore unità statale. Questo progetto unitario di governo non può essere diviso né dai contrasti politici tra i partiti, né dagli scontri d'interesse tra i gruppi sociali e tra le grandi concentrazioni economiche.

La società civile, in questo modello statocentrico, risulta quindi assorbita nello Stato. Si è osservato che avanza una forma di socializzazione dello Stato che .[16] Nel modello liberale italiano le istituzioni sociali che hanno una rilevanza collettiva sono immediatamente trasformate in enti pubblici: Camere di Commercio, Ordini professionali. Comuni e province  non hanno carattere originario e indipendente rispetto allo Stato, com'è ad esempio in Gran Bretagna. Gli enti locali in Italia sono considerati organi dello stato, si configurano come articolazioni del potere centrale e si distinguono poco dagli uffici periferici dello Stato.[17]

Questa centralità dello Stato riduce lo spazio e il peso dei principi di libertà e dei diritti dei cittadini. Lo Stato, con la sua autorità, viene prima degli individui con i loro diritti, che non sono concepiti come una limitazione, ma solo come una concessione dello Stato. L'assenza di un processo costituente dello Stato italiano si accompagna alla mancanza di grandi battaglie e di impegnative affermazioni intorno alle libertà fondamentali e ai diritti dell'uomo. I giuristi italiani condividevano con la scienza germanica anche l'avversione al diritto naturale, e quindi alle dichiarazioni dei diritti.[18]

Una critica radicale a questa traduzione italiana del modello germanico di Rechtstaat fu immediatamente espressa dagli economisti di tendenza liberista sul piano della teoria e della politica economica. Antonio De Viti De Marco e Vilfredo Pareto giudicarono questa teoria dello Stato di diritto una dottrina autoritaria dello Stato, che comprimeva le istanze di libertà e sottometteva l'ordinamento sociale agli interessi più fortemente costituiti, al fine del potenziamento dello Stato e della massima diffusione dello statalismo. A questa prospettiva De Viti De Marco, anche ricorrendo a costituzionalisti liberali inglesi come Albert V. Dicey, opponeva un modello differente di Stato democratico e garantista, fondato sul suffragio allargato anche alle donne e sulla diffusione dei controlli dal basso.[19]

Lo Stato liberale stenta ad uscire dai suoi confini di classe. Così, dopo aver limitato gli spazi per i diritti di libertà, lascia ad altre forze sociali e politiche – classi popolari, socialisti, cattolici – il compito di far procedere il paese sulla strada della nazionalizzazione della politica. Non sarà per caso che i primi partiti in Italia saranno quelli antiistituzionali: il partito socialista nel 1892, il partito repubblicano nel 1894.

Nel primo Novecento lo Stato liberale sarà sottoposto alla duplice pressione del moltiplicarsi delle figure e degli interessi sociali e del crescere delle funzioni amministrative. I processi di industrializzazione e di socializzazione spingeranno verso un riassetto di tipo organicistico della società, aldilà dell'individualismo borghese dell'età liberale.[20] La separazione tradizionale tra Stato e società sarà superata dalla compenetrazione nello Stato di una rappresentanza degli interessi delle diverse forze sociali in movimento:  operai, contadini, ceti medi urbani e agrari. Economia e società premono sulle forme di un assetto istituzionale e politico sempre meno capace di fornire risposte a domande sempre più complesse.[21]

Sul versante della teoria e del riassetto dei poteri costituzionali avanza il modello dello Stato amministrativo. La riaffermazione della sovranità dello Stato come amministrazione persegue due obbiettivi. E' una risposta aggiornata alla crisi di autorità dello Stato liberale rispetto al dilagare dei conflitti sociali e politici e agli effetti disgreganti prodotti dal diffondersi degli interessi di parti, gruppi, individui. Serve quindi sia ad evitare la prevalenza delle pressioni e delle logiche dei gruppi economici, sia  a limitare  i poteri delle assemblee rappresentative e dei gruppi politici espressi dall'espansione della democrazia.[22]

Le trasformazioni sociali ed economiche accelerate dalla guerra mondiale e il processo di democratizzazione - allargato dal suffragio universale maschile, dall'introduzione del sistema proporzionale e dall'espansione dei partiti di massa  (col nuovo partito popolare, anch'esso antistituzionale) – accentueranno la crisi del sistema politico liberale. La prospettiva, individuata per primo da Costantino Mortati, sarebbe stata la ristrutturazione del modello costituzionale, con l'attribuzione del potere di indirizzo politico al Parlamento riorganizzato sulla base dei partiti politici.[23]

Del resto in diversi paesi europei, nel primo dopoguerra, si affermerà la tendenza verso la costituzione della nuova forma di Stato dei partiti (Parteienstaat), segnando il passaggio dal parlamentarismo liberale alla democrazia basata sui partiti di massa, in una visione pluralistica dello Stato, fondata sull'equilibrio dei poteri.[24]

L'introduzione del sistema proporzionale nel 1919 e la costituzione dei gruppi parlamentari alla Camera nel 1920 ponevano, per la prima volta in Italia, i partiti di massa al centro dell'attività parlamentare e nei confronti del governo. Gli aspri conflitti sociali e politici e la costitutiva estraneità tra istituzioni liberali e partiti impediranno il passaggio dal parlamentarismo liberale alla "democrazia dei partiti". Lo Stato liberale  non cadeva per la disgregazione indotta dai partiti, ma perché incapace di ristrutturare il modello costituzionale sulla base dei partiti politici.

Sul terreno più propriamente politico e sociale le furiose lotte scatenate nel primo dopoguerra italiano si incroceranno con il prevalere della prospettiva dei "blocchi nazionali" – di conservatori, liberali e fascisti – che individueranno nei partiti di massa il nemico da abbattere e riproporrano l'identificazione di una parte politica con la nazione e lo Stato.[25]

Il ruolo dei partiti sarà di nuovo ridimensionato, nella prospettiva di una restaurazione della sovranità statale in nome di un superiore interesse nazionale. La novità sarà costituita dalla identificazione dello Stato nazionale con un partito, il Partito nazionale fascista, che si proporrà anche di integrare nello Stato la società in modo totalitario, ma con scarsi risultati.

 

Francesco Barbagallo

Ordinario di Storia Contemporanea all'Università di Napoli

Diretto della rivista Studi storici

 

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[1] G. Galasso, L'Italia come problema storiografico, Introduzione a Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, UTET, Torino 1979, pp. 163 ss.

[2] G. Candeloro, L'unificazione italiana, in La Storia, diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. VIII, L'Età contemporanea, tomo 3, UTET, Torino 1986, pp. 350 ss.; M. Meriggi, L'unificazione nazionale in Italia e in Germania, in AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997, pp. 129 ss.

[3]  A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Einaudi, Torino 1959; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica  da Rattazzi a Ricasoli, 1859-1866, Giuffrè, Milano 1964; E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Laterza, Bari 1967; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario, Feltrinelli, Milano 1968.

 

[4] T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1979; R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, il Mulino, Bologna 1988; G. Pescosolido, Dal sottosviluppo alla questione meridionale, in Storia del Mezzogiorno, vol. XII, Edizioni del Sole, Napoli 1991, pp. 19-90; F. Barbagallo, La modernità squilibrata del Mezzogiorno d'Italia, Einaudi, Torino 1994, pp. 3-34.

[5] P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffré, Milano 1986.

[6] S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, il Mulino, Bologna 1982.

[7] W. J. Mommsen, Società e politica nell'età liberale. Europa 1870-1890, in La trasformazione politica dell'Europa liberale 1870-1890, a c. di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 1986, pp. 15 ss.

[8][8] E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1870. Programma, mito, realtà, Einaudi, Torino 1991.

[9] K. W. Deutsch, Nationalism and Social Communication, The MIT Press, cambridge (MA) 1962; E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985; Id., Il mito della nazione e quello delle classi, in Storia d'Europa, vol. I, L'Europa oggi, a c. di P. Anderson, M. Aymard, P. Bairoch, W. Barberis, C. Ginzburg, Einaudi, Torino 1993, pp. 637 ss.

[10] A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, il Mulino, Bologna 1992.

[11] B. Tobia, Una cultura per la nuova Italia, in Storia d'Italia, 2. Il nuovo Stato e la società civile 1861-1887, a c. di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp.427 ss.

[12] G. Galasso, Storia d'Europa, vol. III, Età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 123 ss.; G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), il Mulino, Bologna 1975; Id., L'uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1982.

[13] U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, il Mulino, Bologna 1989.

[14] G. Cianferotti, Il pensiero di V. E. Orlando ela giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffré, Milano 1980.

[15]  M. Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Stato e cultura giuridica in Italia dall'unità alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 3 ss.

[16]  U. Allegretti, op. cit., p. 265.

[17]  F. Rugge, Autonomia ed autarchia degli enti locali: all'origine dello Stato amministrativo, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in italia fra Otto e Novecento, a c. di A. Mazzacane, Liguori, Napoli 1986, pp. 275 ss.

[18]  G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino 1992.

[19] A. Cardini, Gli economisti, i giuristi e il dibattito sullo Stato dopo il 1880, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, cit., pp. 175 ss.

[20] R. Ruffilli,  Santi Romano e la crisi dello Stato agli inizi dell'età contemporanea (1977), in Id., Istituzioni, società, Stato, vol. II, a c. di M.S. Piretti, il Mulino, Bologna 1990, pp. 163 ss.

[21] S. Cassese, Giolittismo e burocrazia nella "cultura delle riviste", in Storia d'Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, a c. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1981, pp. 475 ss.

[22] C. S. Maier, "Vincoli fittizi... della ricchezza e del diritto": teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, in L'organizzazione degli interessi nell'Europa occidentale, a c. di S. Berger, il Mulino, Bologna 1983, pp. 47 ss.; M. Fioravanti, Stato di diritto e stato amministrativo nell'opera giuridica di Santi Romano, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale, cit., pp. 318 ss.

[23] C. Mortati, L'ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Anonima editoriale, Roma 1931.

[24] G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia (1929), a c. di S. Forti, Giuffrè, Milano 1989.

[25] S. Neri Serneri, Classe, partito, nazione. Alle origini della democrazia italiana 1918-1948, Lacaita, Manduria 1995, pp. 87 ss.