domenica 2 gennaio 2011

La legge di Bertoldo

Conta due secoli la storia delle costituzioni scritte. Riassumiamola: monarchie assolute sradicano gli antagonisti interni sviluppando apparati e tecnologie moderni; culture del diritto naturale e illuministi riformatori postulano una razionalità immanente; metamorfosi traumatiche impongono un codice genetico. Supernorme fissano le procedure del lavoro legislativo, altre regolano i contenuti. Leggi formalmente perfette nascono morte quando divergano dai parametri.

L'art. 3 Cost. ne detta uno capitale presupponendo cittadini giuridicamente eguali: «davanti alla legge» il vagabondo irsuto è pari al plutocrate talmente ricco da comprarsi castelli, palazzi, ville, corpi umani, maschere, lanterne magiche. La regola non ammette revisioni (art. 138): ad esempio, Camere servili ritoccano l'art. 3, stabilendo che Dominus e famigli stiano fuori del comune spazio normativo, intoccabili; mossa invalida nell'attuale sistema; i «revisori», infatti, vogliono affossarlo e vi riescono quando i sudditi pieghino la testa, eventualità nient'affatto improbabile nelle società diseducate al pensiero; chi comanda i piccoli schermi trascina masse stupefatte.

In formula ipocrita i due articoli della l. 7 aprile 2010 n. 51 creano exceptae personae, più forti della legge.

Vediamole.

L'art. 420-ter c. p. p. prevede il rinvio dell'udienza quando l'imputato non possa assistervi: deve trattarsi d'«assoluta impossibilità», da «caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento»; se ricorra tale ipotesi, lo stabilisce una decisione sindacabile; l'offesa al contraddittorio invalida i processi. Qualora l'imputato fosse presidente del consiglio (o ministro), era ovvio che entro dati limiti l'impegno governativo costituisse legittimo impedimento; basta intendersi sui tempi; indichi i giorni disponibili e tra persone serie tutto avviene de plano. Siccome gli uomini non sono angeli, c'era il rischio della soperchieria: guadagna settimane e mesi; finalmente viene, salvo interrompere l'azione scenica, chiamato altrove, né consente al sèguito, dove sarebbe rappresentato dai difensori; vuol occuparsene personalmente; il premier ha meno diritti del cittadino qualunque?; e sbandiera gli articoli de quibus.

Il nuovo testo taglia corto a profitto dei perditempo, configurando un ostacolo permanente e insindacabile. Monsieur N, in fuga dal processo, risulta padrone del gioco, tanti sono gli asseribili impedimenti: ne evoca quanti vuole, dalla «politica generale» agli affari dei singoli dicasteri (art. 95 Cost.), né teme smentite; l'elenco nell'art. 1, comma 1, è fumo negli occhi, non essendo enumerabili in forma tassativa gl'incombenti; l'ultima frase allarga ancora le maglie mettendo nel conto prius e posterius, nonché «ogni attività» in qualunque modo «coessenziale» (aggettivo fumoso). Rinvio automatico, visto che il giudice non ha alternative: contestando i motivi addotti s'ingolfa avventurosamente; se procede, semina nullità.

Il comma 3 gli sottrae la cognizione dei fatti: ogniqualvolta il signore dell'esecutivo dica «non posso», l'evento processuale sfuma; può anche permettersi lo scherno raccontando che lui spende ogni ora libera, diurna o notturna, nel pensatoio elucubrante salutari riforme; è «attività preparatoria», no? Nel comma 4 siamo al clou: se afferma che l'impedimento duri fino alla data x (impregiudicati gli eventuali futuri), l'udienza va fissata oltre tale termine, col limite d'un semestre; e così, ripetuto due volte, il trucco porta via 18 mesi; entro i quali l'art. 2 pronostica l'immunità stabilita con legge costituzionale, altrimenti lo scudo temporaneo sarebbe prorogato; Camere docili votano sul tamburo una lexiuncula.

Insomma, finché presieda il Consiglio, durasse anche trenta o quarant'anni in sella, Monsieur N, affetto da fobia giudiziaria, schiva i tribunali opponendo l'impedimento ogni sei mesi.

Il precedente fiabesco è Bertoldo condannato a morte mediante impiccagione, con una clausola: scelga l'albero a cui sarà appeso; pronto a servirli, appena trovi l'idoneo; non ne vede.

L'ostacolo al processo diventa impunità. La stasi sine die equivale a riscrivere l'art. 3 Cost., come nell'orwelliana Fattoria degli animali: espulso mister Jones, i maiali vittoriosi elaborano una Carta (art. 7, «all animal are equal»); passando gli anni, s'evolvono; ormai camminano su due gambe.

Voltaire corrodeva gl'idoli con battute esilaranti. L'art. 2, comma 1, spiega dove miri questo capolavoro: garantisce al beneficiario un «sereno svolgimento» delle funzioni governative; dunque, non manca il tempo da spendere in curia; ne troverebbe anche Napoleone. I motivi della fuga stanno nell'interno d'anima: maledetta Dike, gli sta alle calcagna; la possibile condanna è un incubo.

Cattivo segno, obietta lo spettatore ancora sofferente d'antiquati moralismi. No, replicano: innocente o colpevole, ha bisogno d'uno scudo e tutti vi siamo interessati; la sua quiete psichica è risorsa inestimabile. Era una fantasia primitiva che gli equilibri naturali influenti sulla tribù abbiano l'epicentro nel corpo del re: lui «sereno», il regno fiorisce; ogni disturbo scatena effetti calamitosi. Ergo, l'interesse tutelato dalla l. 7 aprile 2010 prevale sulla miserabile routine giudiziaria.

Gli ascoltatori seri ridono, d'una ilarità malinconica perché corrono tempi tristi quando masnade parlamentari legiferano così. 

 

Franco Cordero 

[professore emerito di Procedura penale all'Università di Roma – La Sapienza]

 

da La Repubblica

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