venerdì 14 ottobre 2011

L’Europa e la crisi dei debiti sovrani

di Vincenzo Visco
La storia delle (grandi) crisi finanziarie ci insegna che esse sono
tutte caratterizzate da una sequenza di eventi molto simile: hanno
inizio con un crollo dei valori (gonfiati) in qualche segmento del
mercato finanziario; la caduta si estende rapidamente all'intero
mercato; in conseguenza le banche si vengono  a trovare in condizioni
di illiquidità e talvolta di insolvenza ( e possono fallire); le
difficoltà delle banche si traducono in una inevitabile restrizione
creditizia (credit crunch) e quindi in una crisi dell'economia reale,
della produzione e della occupazione; cala il Pil, falliscono le
imprese, crollano  i consumi, aumenta la disoccupazione, l'economia
entra in recessione, e si avvia verso la depressione. Le crisi
finanziarie, inoltre, provocano un forte impatto negativo sui bilanci
pubblici degli Stati in quanto la recessione fa cadere il gettito
fiscale, mentre i meccanismi di sostegno della (crescente)
disoccupazione fanno lievitare la spesa pubblica. A ciò si sono
aggiunti nell'ultima crisi, sia robusti interventi di sostegno
congiunturale  diversamente da quanto accadde nel 1929), sia la
decisione (corretta) di non fare fallire le banche, e quindi di
trasformare consapevolmente ed esplicitamente debiti privati in debito
pubblico (nota 1).

In conseguenza la crisi si trasferisce dal settore privato a quello
pubblico fino a determinare l'insolvenza, il default degli Stati.
Tradizionalmente i default successivi a una grande crisi finanziaria
hanno riguardato soprattutto Paesi in deficit nei conti con l'estero
in seguito alla crisi delle bilance dei pagamenti , ma nella crisi
attuale il rischio di insolvenza si è manifestato anche a causa del
lievitare dei disavanzi fiscali dei bilanci pubblici.

In altre parole ciò che sta succedendo oggi nel mondo è tutt'altro che
inusuale, ed era ampiamente prevedibile data l'ampiezza e la portata
della crisi; il problema è dato dall'eccesso di debiti (privati e
pubblici) che in qualche modo devono essere smaltiti, il che pone la
questione della ripartizione dei costi dell'aggiustamento che comunque
è necessario per consentire una ripresa. Non è un caso che le crisi
siano accompagnate inevitabilmente da conflitti sociali, politici, tra
Stati, e talvolta da guerre.

È per questi motivi che oltre un anno fa prospettai una possibile
soluzione al problema dell'eccesso di debito pubblico generato dalla
crisi, valida nella ipotesi (del tutto irrealistica) che la
consapevolezza dei problemi qui illustrati fosse adeguata, e che la
ragione potesse guidare le scelte economiche del mondo (nota 2).

In sostanza si trattava di collocare in uno speciale Fondo
l'incremento di debito dovuto alla crisi finanziaria finanziandolo con
i proventi di una imposta a ciò dedicata (che poteva essere una tassa
sulle transazioni finanziarie), isolando così l'extra-debito dai
bilanci degli Stati, e garantendo il suo smaltimento nel lungo periodo
senza interferenze con il funzionamento delle economie. Il Fondo
avrebbe potuto operare liberamente sul mercato e quindi produrre anche
profitti. Questa soluzione ove adottata sarebbe stata più utile di
quelle che tradizionalmente si producono dopo la crisi finanziaria per
smaltire i debiti: inflazione, consolidamenti, ripudi, defaults degli
Stati, repressione finanziaria, ecc. vale a dire la rappresentazione
cui stiamo oggi assistendo.

Lo stesso ragionamento, dall'economia globale poteva essere trasferito
su scala regionale (a livello europeo) e così la proposta si è
trasformata in quella di convertire in eurobonds l'eccesso di debito
dei Paesi europei (nota 3). Infine la proposta è stata semplificata
ulteriormente sottolineando che se una imposta sulle transazioni
finanziarie non fosse facilmente attuabile, o ponesse problemi dal
momento che il suo gettito non è distribuito in modo uniforme tra gli
Stati, sarebbe  sufficiente prevedere il finanziamento del servizio
degli eurobonds a carico dei singoli Stati in proporzione al debito
conferito nel Fondo mediante un esplicito ear-marking (destinazione
prioritaria) delle loro entrate di bilancio al servizio del debito
comune. Inoltre è possibile dimostrare che, dato il prevedibile costo
degli eurobonds (tasso di interesse), i risparmi determinati dalla
convergenza dei tassi sarebbero tali da consentire non solo il
riequilibrio delle finanze pubbliche degli Stati ma anche la
compensazione degli eventuali extra costi a carico dei Paesi virtuosi
da parte di quelli "viziosi" che trarrebbero il massimo vantaggio
dalla emissione degli eurobonds (nota 4). Da questo punto di vista non
mi sembra necessario prospettare forme di garanzia reale per il Fondo
che dovrebbe emettere gli eurobonds, come avviene nella proposta di
Prodi e Quadrio Curzio ( l'oro delle banche centrali); infatti il
servizio del nuovo debito europeo dovrebbe avvenire mediante un flusso
di esborsi correnti ( interessi, ecc.) e sarebbe comunque necessario (
e sufficiente) garantire tale flusso dalle entrate correnti dei
bilanci dei singoli Stati e/o da imposte a ciò dedicate e destinate (
come la FTT nella proposta Visco). Il passo logicamente e
temporalmente successivo dovrebbe essere, ovviamente, la previsione di
imposte (o comunque gettito) di pertinenza diretta dell'Unione, e
quindi l'inizio di una vera  e propria politica fiscale europea.

In materia di eurobonds sono state avanzate diverse ipotesi e proposte
(nota 5): da parte di Monti, Delpla e von Weisäcker, Juncker e
Tremonti, fino a Prodi e Quadrio Curzio. Tutte seguono lo stesso
schema: ipotizzano cioè che si possano emettere titoli di debito
europeo per un ammontare massimo pari al 60% del Pil dell'eurozona. La
proposta Visco invece ipotizza o che si trasformi in eurobonds solo la
parte corrispondente all'incremento del debito provocato dalla crisi,
o – viceversa - quella che eccede il 60% del Pil di ciascun Paese.
L'obiettivo della stabilità richiede infatti che i singoli Paesi
possano ripartire con nuove regole, nuovi controlli e adeguate riforme
dalla stessa condizione iniziale. Si eviterebbe così il rischio di un
trattamento pregiudizialmente diverso dei singoli Paesi da parte dei
mercati. Ciascun Paese dovrebbe finanziare dal proprio bilancio sia il
servizio degli eurobonds che quello relativo al debito domestico.

Né è difficile capire perché siamo arrivati alla situazione attuale.
Dopo la introduzione dell'euro, la convergenza dei tassi di interesse
e l'integrazione dei mercati finanziari fu immediata come si conviene
in condizioni di moneta unica, e tale situazione ha prevalso fino a
pochi mesi fa quando l'intero sistema della moneta unica è entrato in
crisi per ragioni evidenti: il rifiuto dell'Unione europea di gestire
insieme e collettivamente la crisi finanziaria e in particolare quella
delle banche considerandola questione nazionale da trattare a livello
di singolo Stato. È emersa così l'insufficienza tecnica e politica
della costruzione dell'euro: era quello invece il momento per
utilizzare l'emissione di eurobonds per ricapitalizzare congiuntamente
le banche europee e far fare un passo avanti al processo di
integrazione. La attuale crisi dell'euro è infatti poco giustificabile
da un punto di vista economico: la zona euro presenta livelli di
debito piuttosto ridotti (80-85%) rispetto a quelli degli USA, del
Giappone, del R.U e un equilibro nelle partire correnti e tuttavia è
stata più fortemente colpita dai mercati: se l'Europa avesse agito
come un unico soggetto economico tutto ciò non sarebbe accaduto. Il
possibile default di alcuni Paesi, Italia compresa, e la conseguente
possibile disintegrazione della zona euro sono il prodotto di errori,
miopie e nazionalismi riemergenti che richiamano alla memoria vicende
non dissimili verificatesi dopo la crisi del '29. Soprattutto in
Europa si è affermata nel dibattito politico corrente una singolare
inversione tra le cause e gli effetti della crisi. Mentre – come si è
detto – è del tutto ovvio e pacifico che i disavanzi e la crescita del
debito sono un effetto della crisi, in Europa si è teorizzato, e ci
stiamo comportando come se la crisi fosse l'effetto, e non la causa,
dei disavanzi di alcuni Paesi periferici, sicché sarebbe necessario
per risolvere i problemi europei, che questi Paesi, ai quali di è
aggiunta l'Italia, deflazionassero pesantemente la loro economia costi
quello che costi. È abbastanza ovvio che così facendo si peggiora la
situazione anziché risolverla, si creano risentimenti, paure e
sofferenze reali che potrebbero essere evitati.

Il problema rimane quindi quello della gestione dei debiti provocati
dalla crisi finanziaria: se si ritiene che debbano essere ripianati
all'interno dei bilanci di ciascun Paese, non rimane che procedere
come stiamo facendo e ipotecare 10-20 anni delle nostre vite
dedicandole a questo compito. Se viceversa si prende atto della realtà
(anche storica (nota 6)) e si cercano sistemi cooperativi e meccanismi
e strumenti finanziari idonei a gestire la crisi, (come sono anche gli
eurobonds) è possibile riprendere una fase di sviluppo più ordinata di
quella che si è risolta nella catastrofe del 2007-09. Ma per fare ciò
sarebbero necessarie leadership politiche molto forti, consapevoli e
autorevoli.

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1) Naturalmente non era necessario salvare, oltre alle banche, anche i
proprietari delle banche. Sarebbe stato invece opportuno
nazionalizzarle, sostituire il management e trasformare gli
obbligazionisti in azionisti in modo da costringere anche loro a farsi
carico dei costi della crisi. Le banche così risanate potevano
successivamente essere riprivatizzate. Non aver seguito questa
strategia che pure era stata prospettata (persino in maniera
bipartisan), è stato il principale errore che può essere imputato al
Presidente Obama. Più probabilmente, però, tale comportamento riflette
l'influenza (nefasta) del finanziamento privato della politica negli
S.U., e cioè la crisi della democrazia americana.
2) Lo stesso problema era stato sollevato da Paolo Savona più o meno
contemporaneamente in alcuni articoli comparsi sul Messaggero.
3) V. Visco: Innovative Financing at a Global and European Level,
Audizione la Parlamento Europeo 10 gennaio 2011.
4) V. Visco Il Sole 24Ore 16 luglio 2011
5) Il fatto che l'emissione di eurobonds possa in teoria e in pratica,
essere utilizzata per finanziare infrastrutture e programmi di
investimento, o per "europeizzare" parte del debito dei Paesi della
zona euro è ovviamente del tutto irrilevante.
6) Reinhart e Rogoff hanno dimostrato come i grandi debiti derivati
dalle grandi crisi non sono mai stati ripagati interamente nella
storia del capitalismo. V. A. Decade of Debt NBER w.p. n. 16.827.

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